Valli a capire, i democratici della Capitale. Ci vorrebbe uno Sherlock Holmes, o un Sigmund Freud. Non agiscono mai con linearità, c’è sempre qualcosa che non torna. I soliti sospetti, le manine, i giochetti: fa molto Partito democratico di Roma.
E così, a sole 48 ore dalla sua elezione a segretario del Pd, Enrico Letta si è trovato fra le mani il dossier sulla questione romana, il mai risolto problema della strategia per le comunali della Capitale che si terranno a fine ottobre, primo banco di prova per il nuovo leader, una matassa che il suo predecessore ha lasciato ingarbugliare come se non sapesse, il romano Nicola Zingaretti, quanto sia intricato il pasticciaccio brutto delle elezioni a Roma.
Ieri la vicenda è apparsa in tutta la sua surrealtà. Su alcuni giornali era apparsa la notiziona della candidatura di Roberto Gualtieri di cui si parla da mesi, poi ripresa con evidenza dalle agenzie. Ci siamo, il Pd ha dunque deciso, habemus Gualtieri. Deciso? Ma niente affatto, «il segretario non ha avuto il tempo di esaminare il dossier», faceva trapelare un imbarazzato Nazareno. Una figuraccia, la prima dell’éra Letta. Ma non certo per colpa sua.
Perché il problema politico di una discesa in campo dell’ex ministro dell’Economia, che amleticamente in queste settimane non aveva sciolto la riserva vista anche la situazione franosa del Nazareno, porrebbe un problema serio: può l’alleanza lettiana (quella che va da Carlo Calenda a Nicola Fratoianni, per intenderci) presentarsi al primo turno con quattro, o più, candidati? Va bene che poi c’è il secondo turno che obbliga tutti a convergere su un nome ma i lividi e le ferite conseguenza delle botte che voleranno al primo segneranno l’esito finale della partita contro la destra, una destra che, per quanto in ritardo nell’individuazione di un nome forte, nella Capitale è sempre molto competitiva.
Carlo Calenda che, fosse per Letta andrebbe pure bene come candidato, ha detto subito di restare in campo irritato «per aver saputo dai giornali» la notizia di Gualtieri, obiettivamente non un gran segno unitario. Dando per scontato che Virginia Raggi, appoggiata da Giuseppe Conte e dunque da un partito alleato di governo, difficilmente si ritirerà a favore di un candidato del Pd, ecco che Gualtieri si troverebbe a battersi contemporaneamente contro Raggi, Calenda, un esponente della Sinistra e il candidato unico della destra: ci vorrebbe un fisico che nemmeno Marvin Hagler, re dei pesi medi negli anni Ottanta scomparso pochi giorni fa.
Il capolavoro assoluto del Pd – la sua Ultima cena – sarebbe l’ostacolarsi a vicenda di Gualtieri e Calenda con conseguente passaggio di Virginia al ballottaggio contro la destra. Ovvio che Letta non desideri affatto una coalizione sfrangiata e per questo prenderà il famoso cacciavite per salvare il salvabile. Vedrà presto sia Gualtieri sia Calenda, il quale non crede che si possa a venire a patti con il Pd romano.
Vai a capire che cosa sia successo. Sembra che la notizia sul scesa in campo dell’ex ministro democratico sia stata fatta filtrare: ma da chi? E perché? Una fuga in avanti inspiegabile. Quello che è certo è che Enrico Letta è sobbalzato sulla sedia per il fatto che anche il segretario che vuole togliere aria a correnti e camarille (Roma ne è un triste laboratorio) deve apprendere le cose dai giornali.
Poiché era facilmente immaginabile che il nuovo leader volesse mettere bocca nella questione romana, com’è suo dovere oltre che suo diritto, probabilmente gli si è voluta tagliare la strada, scodellandogli una soluzione che magari non è quella che più gli aggrada, mettendolo insomma davanti al fatto compiuto.
Come sempre poi gli angoli si sono smussati, «ho dato la mia disponibilità ma ne parlerò con Letta» hanno riferito fonti vicine a Gualtieri, acqua fredda sul fuoco anche dal Nazareno, mentre il segretario ha detto che l’ex ministro «è un nome forte». Ma è impossibile negare che la vicenda sia stata gestita male: il primo tafazzismo di un nuova stagione del Pd che a Roma si conferma uguale alla vecchia.