Ne “Il rumore di quest’epoca”, un libro di Fernando Aramburu che è appena uscito per Guanda (326 pagine, 19 euro, traduzione di Bruno Arpaia) ci sono molte cose da leggere. Non è un romanzo e non è una raccolta di racconti, ma è una scelta di articoli (di elzeviri si sarebbe detto una volta) pubblicati dallo scrittore sulle pagine del quotidiano spagnolo El Mundo. Sono “pezzi lunghi”, se li si guarda dalla prospettiva della stampa periodica. Ma sono “pezzi brevi” se li si sfoglia impaginati in un libro di più di 300 pagine.
I più piacevoli da sgranocchiare sono forse i ritratti. Alcuni personaggi prendono tutta l’estensione dell’articolo, altri ne riempiono invece soltanto un ritaglio o fanno solo una fugace apparizione di qualche riga. Fra loro, ce ne sono alcuni che in Italia sono quasi sconosciuti ma che, appena sfiorati da Aramburu, fanno subito venire voglia di mettere mano a Google, come la poetessa argentina (e ticinese) Alfonsina Storni, lo scrittore basco Ramiro Pinilla (di cui Fazi ha pubblicato un anno fa “L’albero della vergogna”) o il poeta canario Félix Francisco Casanova (morto a 19 anni).
Uno degli assi gravitazionali (forse il più importante) di questa raccolta policentrica è però il capitolo dedicato agli articoli sul Paese basco e sulle ferite lasciate dal terrorismo del gruppo armato indipendentista Eta. Un terrorismo fatto non solo di proiettili e di bombe, ma anche di intimidazioni e di pressioni psicologiche. Era il mondo che Fernando Aramburu, basco di San Sebastián che vive da decenni in Germania, ha raccontato in racconti (pubblicati in italiano prima da La Nuova Frontiera, con il titolo “I pesci dell’amarezza” e poi da Guanda, con il titolo “Dopo le fiamme”) e in romanzi, tra cui “Anni lenti” (Guanda) e soprattutto “Patria” (ancora Guanda), caso editoriale in Spagna e grande bestseller internazionale che lo ha reso celebre in tutto il mondo e anche in Italia.
Qui, in questi articoli che Aramburu ha scritto per El Mundo, si vede l’attrezzatura con cui ha costruito anche quel romanzo fortunatissimo, e che è fatta di esperienze personali, di riflessioni, di prese di posizione private e pubbliche e di un’elaborazione, anche teorica, di una narrativa del terrorismo e dei suoi effetti, spesso duraturi o irreversibili, su un’intera società.
Per lui la scrittura, per quanto sia di fatto impossibile, deve provare a riparare i torti subiti dalle vittime. Deve contribuire, almeno un po’, a rifondere la loro sofferenza e a farsene carico, per quanto possibile. “Non dimenticare il dolore degli altri” si chiama la sezione di questa raccolta in cui si trovano gli articoli sul Paese basco.
È una traccia, questa, che attraversa tutto il libro, e che segue l’autore in tutto il mondo. Se scrive di un suo soggiorno a Palermo, Aramburu, già alla tredicesima riga, sta parlando di Giovanni Falcone. Se invece è a Buenos Aires, e sta raccontando l’Argentina in quattro pagine, conclude l’articolo con l’aneddoto di un incontro casuale, in aereo, con un «anziano alto e corpulento, vestito da turista e provvisto di un setto nasale potente e come triturato a pugni». Quell’uomo è Martín Balza, generale ormai in pensione che, ai tempi del presidente Carlos Menem, così scrive Aramburu, «con indosso la divisa, ebbe il coraggio di riconoscere di fronte alle telecamere il colpevole coinvolgimento dell’esercito del suo Paese nella brutale repressione durante la dittatura. Chiamò per nome l’orrore vissuto e disse: “Se non riusciamo a elaborare il lutto e a chiudere le ferite, non avremo futuro”».
E poi, in diversi punti de “Il rumore di quest’epoca”, e in luoghi dell’Europa lontani fra loro, compaiono le pietre d’inciampo, quei cubetti di ottone che in molte città, su iniziativa dell’artista tedesco Gunter Demnig, sono state infisse nel selciato o immerse nell’asfalto davanti all’uscio di chi fu deportato nei campi di sterminio nazisti e che riportano il nome della vittima e alcune informazioni sulla sua sorte. E si capisce che questi «sampietrini della memoria», come li chiama Aramburu, hanno colpito molto la sua sensibilità.
Ed ecco che allora l’autore di “Patria”, quando invece parla della sua terra, scrive: «Nell’epoca degli attentati [nel Paese basco, ndr] sono state scritte alcune, diverse, molte opere letterarie (…) sulla violenza, il conflitto, la lotta armata o comunque la si voglia chiamare, tranne terrorismo, termine che da solo colloca chi lo usa fuori dalla riserva culturale dei genuini».
E poi: «Per quanto si rigiri la faccenda degli eufemismi, non sembra la stessa cosa scrivere su piuttosto che contro, né limitarsi al nobile e legittimo compito da scrivania piuttosto che compromettere, per di più, a partire dalla pratica della letteratura e dell’espressione pubblica delle idee, la propria integrità fisica con un’azione civica contraria agli interessi dell’aggressore».
Che Aramburu scriva i suoi romanzi contro il terrorismo, contro l’Eta, contro i suoi fiancheggiatori e contro i suoi silenziosi complici e non su queste vicende è chiarissimo a chiunque abbia letto “Patria”.
Il miracolo, in quel caso, è che Aramburu non abbia piallato la storia sulla rigidità di un romanzo a tesi, non abbia strozzato la vena narrativa in un pamphlet travestito da fiction, ma abbia invece scritto un librone molto lungo e molto bello e molto godibile, un librone pieno di personaggi e di intrecci che si divora con la voluttà da binge reading (e infatti ne è stata tratta una serie tv), ed eppure abbia scritto anche un libro contro quello che è stata l’Eta (perché l’Eta ora non c’è più) e contro il terrorismo.
E qui, nelle pagine raccolte ne “Il rumore di quest’epoca” lo spirito di Aramburu, fieramente intransigente contro chi vuol nascondere le vittime del terrorismo dietro un pudico paravento, è ancora più chiaro e tagliente.
C’è però una frase che non convince fino in fondo. E meno male che è così. Infatti, proprio in uno degli articoli raccolti qui, in cui parla di un libro che era corso a comprare in libreria e che di sicuro gli sarebbe piaciuto, lo stesso Aramburu scrive: la lettura di quel libro «che ho rimandato il meno possibile, mi ha deluso. Com’è possibile? Be’ per il semplice motivo che non ho trovato nel libro una sola tesi da cui dissentire».
Ecco, invece, che qui c’è una frase di Aramburu che di sicuro non ci delude, perché è una frase sulla quale si può dissentire. Viene subito prima di quelle sue severe parole di critica nei confronti di chi scrive su e non contro il terrorismo. In essa Aramburu allude a degli «etarras idilliaci, introspettivi e folcloristici, alloggiati, in assenza narrativa delle loro vittime, in labirinti mentali tipici di certa, non tutta, letteratura autoctona». In quella frase l’autore di “Patria”, pur senza farne il nome, sembra proprio voler far trasparire attraverso questo vedo-non-vedo verbale, un altro grande scrittore basco: Bernardo Atxaga.
Già molti anni fa, nel 2011, in un’intervista al País, Aramburu, che scrive in castigliano, disse degli scrittori che scrivono in basco (e Atxaga è il maggior scrittore in euskara): «Non sono liberi perché sono sovvenzionati, fanno parte della campagna di promozione dell’idioma. Nel Paese basco si mantiene la finzione che esistano lettori in euskara e pertanto è necessario l’appoggio ufficiale». E riguardo al collega aggiunse: «Per Bernardo Atxaga ho grande affetto, ed è una eccellente persona, ma ha toccato il tema dell’Eta in maniera metaforica, senza nominare ciò che è evidente: la sofferenza e il sangue. Non è un uomo libero e cerca di compiacere gli uni e gli altri».
Atxaga non l’ha presa bene, come non ha preso bene il gigantesco successo di “Patria” di cui ha parlato pochissimo se non per rimarcare che il grande romanzo di Aramburu è uscito quando Eta non colpiva più da anni. «Il mio primo libro politico lo pubblicai più di vent’anni fa, quando c’era ancora la violenza: io sono già stato nel primo piatto e i dessert non mi interessano molto», ha detto Atxaga quando ha vinto, nel 2019, il Premio nacional de las letras españolas.
Ora: dire che Atxaga, che è l’unico autore che scrive in basco a vendere molto sia in lingua originale (e questa è davvero una rarità) sia in castigliano, è uno scrittore sovvenzionato è una forzatura. E anche dire che lui, che neppure si dichiara indipendentista, voglia compiacere qualcuno. Ma certo il suo modo di vedere, vivere e raccontare la sua terra è diverso da quello di Aramburu, ma perché è diversa la sua indole di narratore.
Per accorgersene basta leggere la sua raccolta di poesie “Dall’altra parte della frontiera” (Guanda), oppure il suo romanzo di racconti baschi “Obabakoak” (in italiano prima per Einaudi e ora per 21lettere), oppure ancora il suo romanzo africano “L’ottava casa” (Passigli). E così anche nei suoi libri in cui compaiono il terrorismo di Eta e gli etarras – come “L’uomo solo” (Giunti), “Sotto un altro cielo” (Giunti) o “Il libro di mio fratello” (Einaudi) – il piglio del racconto è tutto diverso da quello di Aramburu.
Entrambi, sia Aramburu sia Atxaga, volevano scappare dagli anni di Franco in cui erano nati e cresciuti. «La Spagna di allora», scrive il primo dei due in una pagina de “Il rumore di quest’epoca”, «lottava per liberarsi dei suoi stracci grigi e vestirsi in maniera colorata». E il Paese basco, per certi versi, è rimasto grigio per qualche decennio più a lungo del resto della Spagna proprio a causa della violenza terrorista.
Aramburu ha trovato i suoi colori andando a studiare a Saragozza e a vivere in Germania, scrivendo romanzi belli contro il terrorismo e riuscendo poi a inchiodare alle pagine di “Patria” centinaia di migliaia di lettori in tutto il mondo. Atxaga invece ha trovato i suoi colori riuscendo a dipingere nella sua lingua, che era ben poco abituata a farlo, perlomeno per iscritto, tutto il Paese basco e poi anche tutto il resto del mondo, Barcellona, l’Idaho, il Nevada e il Congo. E a raccontare anche il terrorismo e i terroristi, ma al modo suo che non è il modo di Aramburu.
«Non ho mai pensato, né desiderato scrivere di queste cose e non mi pare di essere nato per farlo. E di fatto non sono più tornato a scriverne», ha detto Atxaga in un’intervista di due anni fa a Jot Down. «Però è stato qualcosa che è successo. Per conoscenti, per amici, per vicini. Era qualcosa che ti circondava. Uno scrittore, in questa trama. Che fa? Si gira dall’altra parte?». E, rispondendo a una domanda sul suo interesse per gli etarras come personaggi letterari, risponde: «Di etarras ce ne sono molti. A me interessava la gente che è stata attorno a me e che ho visto».
Forse loro due, Aramburu e Atxaga, non si metteranno mai d’accordo. D’altra parte, «da quando esiste la letteratura, spesso gli scrittori si beccano tra loro. Alcuni contraggono lunghe, profonde e ulcerate antipatie che finiscono per trascinarli, loro malgrado, in un rapporto di dipendenza con la persona detestata (…). Questa agitazione si traveste molte volte da divergenza ideologica». Chi lo ha scritto? Fernando Aramburu, Dove? In un articolo raccolto proprio qui, ne “Il rumore di quest’epoca”.
Ma i lettori sono fortunati, perché possono leggere i libri di entrambi. Ed è fortunato il Paese basco a essere raccontato, con due sguardi diversi, due stili diversi e due lingue diverse, da due scrittori così.