Il riformismo in un solo partito o il riformismo permanente, in tutti i soggetti? Parafrasando il dilemma tra Stalin e Trockij, il problema strategico dei riformisti italiani c’è tutto. Alla fine di tante analisi, il punto di caduta è quello. Ma siccome nessuno ha «la chiave per superare questa difficoltà», come disse nel suo ultimo discorso Aldo Moro, non resta altro che mettere su, mattone dopo mattone, un insieme di contenuti, una certa idea dell’Italia, facendolo con quella pazienza che per la verità, nella storia, hanno avuto più i rivoluzionari che i riformisti.
Tuttavia, il contrario di riformisti è conservatori e oggi il mondo segnato dalla pandemia corre come non mai. Dunque questo potenziale soggetto – se unico o trasversale si vedrà, tanto abbiamo davanti 24 mesi per deciderlo – dovrà essere capace di sfruttare un’inedita «occasione riformista», come l’ha definita Alessandro Barbano, uno dei due relatori della “Maratona riformista”, che è stata organizzata, fra gli altri da Linkiesta, in seguito all’Appello per una nuova alleanza riformista e liberal-democratica e che si è svolta ieri mattina riscuotendo un’attenzione insperata: circa 50mila persone connesse alle piattaforme e a Radio Radicale per seguire i moltissimi interventi di cui è impossibile dare conto (si possono ascoltare qui), con le conclusioni di Marco Bentivogli, figura ormai centrale nel raccordo fra le diverse esperienze riformiste.
Barbano ha detto che attualmente «non c’è una forza alternativa al vecchio bipolarismo» e che «non è il tempo di partitini personali», in sintonia con Alessandro Maran, l’altro relatore, convinto a sua volta che bisogna guardare alle novità europee (Sandro Gozi insisterà su questo punto valorizzando molto Renew Europe) ove si legge un certo logoramento del tradizionale schema sinistra-destra: «Guardiamo anche alle elezioni olandesi: io dico che del centro c’è bisogno, di un centro alternativo al bipolarismo bipopulista di questi anni. Noi siamo qui per strutturare questo spazio aperto».
La premessa è necessaria perché si capisca subito che dalle iniziative di questo weekend, che hanno visto in campo il fior fiore dell’intellettualità e della politica che sbrigativamente chiamiamo “riformista”, non esce “la notizia” che fa felici i capiredattori delle pagine politiche.
Ne esce un’altra, più sofisticata, più interessante: mondi diversi che comunque si richiamano tutti a una radice di riformismo liberale, socialista e cattolico si parlano, per costruire una rete certo fragile ma che coglie una domanda che si va vivificando in questa fase di svolta politica segnata dal superamento del “bipolarismo bipopulista” con il doppio avvento di Mario Draghi alla guida del governo e di Enrico Letta a quella del Pd. Una svolta – lo ha notato Claudia Mancina – che cambia i termini della questione dei riformisti, che interpella appunto culture se vogliamo minoritarie ma sospinte dal corso della Storia a venire avanti, a ideare una nuova offerta politica.
«Bisogna osare», ha detto il leader di Base Italia, Marco Bentivogli, «e la maratona di oggi rappresenta una svolta. Siamo coloro che devono saper intercettare le emozioni delle persone, ascoltarle, coinvolgerle. Siamo qui perché chiunque governi, tratti gli italiani da adulti, dopo 15 anni di demagogia. Per questo vogliamo rivolgerci a tutti coloro che si sono rassegnati alle scorciatoie nel parlare alle persone».
Certo, la sconfitta dei populisti di Giuseppe Conte e Luigi Di Maio apre un orizzonte nuovo. Ma, ha ricordato Bentivogli, «l’agenda Draghi non è maggioritaria in Parlamento, per questo abbiamo la necessità di “costruire il popolo” riformista su queste basi, riprendendo a parlare con centinaia di migliaia di persone. Oggi abbiamo fatto capire a tanti che si autoproclamano leader che è insieme che si costruisce qualcosa di importante».
Paradossalmente la riunione di ieri (da remoto) ha mostrato anche una certa difficoltà a mettere a fuoco la svolta di queste settimane. Anche perché, se nessuno dubita della mission di Mario Draghi, ancora non è chiaro quali spazi reali si aprano nel Pd di Letta. Saggiamente, a proposito del dilemma politico di cui all’inizio di questo articolo, Claudio Martelli ha suggerito di prendere tempo, rinviando la scelta «se andare tutti nel Pd o fare un nuovo cespuglio» e di utilizzare invece questi 24 mesi per rilanciare le riforme, a partire da quelle istituzionali e elettorali (tema sviscerato da tanti, nel senso del maggioritario), mentre Giorgio Gori e Enrico Morando scorgono uno spazio nuovo nel Pd di Letta e così pure – ma ovviamente – Lia Quartapelle e Marianna Madia, che hanno svolto due interventi di notevole spessore, la prima evidenziando la necessità di una «riforma della democrazia italiana» e la seconda insistendo sul tema delle nuove povertà come mission essenziale.
Altri, come Mancina, Pietro Ichino, Giuliano Cazzola, non contemplano l’ipotesi di un nuovo “terzo polo”, una nuova Scelta civica parrebbe un accanimento terapeutico, e tuttavia il Pd rimane, in generale, un pianeta ancora respingente per tanti, come se il Lingotto fosse un ricorso del sogno al mattino mentre la realtà, malgrado l’inattesa débâcle di Nicola Zingaretti, è ancora troppo poco chiara per fare del Nazareno la casa dei riformisti.
E, quanto a Italia viva e Matteo Renzi, diciamo che non paiono esattamente nella testa di alcuni dei partecipanti all’incontro, come se vi fosse un grumo di imbarazzo, se non di aperta disillusione verso l’ex premier che nella Assemblea nazionale di Italia viva di sabato ha sfidato il “nuovo Pd” proprio sulla concretezza delle riforme.
Nell’incontro di ieri Roberto Giachetti è stato però molto incoraggiante, molto “unitario” («Gettiamo il cuore oltre l’ostacolo») ma non c’è dubbio che la questione delle forme politiche di un eventuale incontro, nonché quella del leader di quest’area, siano completamente aperte, pur nella stucchevolezza, posto così, del quesito se vengano prima le idee o prima il leader. Questione sulla quale, per esempio, Carlo Cottarelli non ha tanti dubbi: «Vediamo prima di chiarirci sui contenuti, la questione politica verrà di conseguenza», mentre il filosofo Massimo Adinolfi, sfuggendo al dibattito sulle categorie classiche, ha richiamato il riformismo alla nozione spesso mal interpretata di “pragmatismo”, che è comunque benvenuta nel mare delle parole.
Come a un altro convegno, quello dell’associazione Libertà Eguale di Morando e Stefano Ceccanti, che si è tenuto sabato, anche ieri si è registrata una forte spinta (target implicito, il Pd) a porre la questione della riforma elettorale in senso maggioritario e quella della giustizia (richiamata da Marco Taradash e Riccardo Magi), dalla separazione delle carriere all’abolizione dell’obbligo dell’azione penale. Il pragmatismo delle riforme non è solo appannaggio di Renzi, perché il riformismo vero – lo ha ricordato Mario Rodriguez – è azione, «popolare e non populista» (Bentivogli), con il Pd lettiano incalzato da tutte le parti a concretizzare il suo para-ulivismo.
Seguiranno altre iniziative, una coinvolgerà i leader delle forze politiche. Non è che l’inizio.