La cucina come doloreO del perché non dovremmo sempre cercare la via più facile

Il nostro rapporto con il cibo è spesso fondato sulla ricerca della comodità e del sapore rassicurante. Invece dovremmo accettare un poʼ di sofferenza e di fatica

La prendiamo alta? Prendiamola alta. Questa settimana partiamo con le nostre consuete riflessioni di “remoto” sapore gastronomico prendendo spunto da un articolo di Davide Sisto comparso su Doppiozero: Byung-Chul-Han. La società senza dolore. Vi si parla dell’opera, per certi versi controversa, del filosofo sudcoreano Byung-Chul Han, e in particolare del suo libro La società senza dolore, uscito in italiano per Einaudi a febbraio. Al di là del tema particolarmente stimolante già di suo, che riassumerei dicendo che Han si pone come critico radicale della società contemporanea che rincorre una dimensione di vita privata della sofferenza, quasi narcotizzata, di impeto palliativo, credo che si possa azzardare qualche azzardato parallelismo (la ripetizione è voluta) con le tendenze in atto nel mondo del cibo.

«Sono soprattutto i progressi tecnologici e scientifici, il processo di secolarizzazione e le trasformazioni politico-economiche a cui si è sottoposto l’Occidente», scrive infatti Sisto, «ad aver determinato queste radicali metamorfosi, le quali hanno favorito l’imporsi di quella che l’antropologo Stefano Boni definisce “schermatura tecnologica”: vale a dire, l’insieme delle “membrane protettive” che separano progressivamente l’essere umano dalle debolezze della propria biologia, liberando il corpo “dalla necessità di confrontarsi con la naturalità circostante, permettendo la soppressione di attività che richiedevano un’interazione sensoriale olistica e complessa, spesso faticosa e fastidiosa”». Se siete coraggiosamente arrivati fin qui, dopo il dolore della riflessione filosofica arriva l’apertura alla dimensione gastronomica, verrete premiati. Battute a parte, il tema del ruolo della sofferenza e del dolore nello sviluppo dell’umanità contemporanea mi ha fatto fare un salto concettuale al bellissimo articolo di Dario De Marco Cos’è una ricetta: storia e filosofia di un genere (link più sotto). Sì perché leggendo della divisione tra pedanti e fanfaroni in cucina, tra coloro cioè che considerano la ricetta un mantra da seguire con precisione certosina e i fantasiosi jazzisti che fanno dell’improvvisazione a partire dal canone la loro ragione di vita, ho pensato che in fondo la figura del pedante, in cui in parte mi identifico, coincide con quella dell’individuo che rifugge la sofferenza e la conoscenza costruita con un apprendimento basato sui tentativi e gli errori, «permettendo la soppressione di attività che richiedevano un’interazione sensoriale olistica e complessa, spesso faticosa e fastidiosa», come scritto poco sopra.

Poi vabbè, bisognerebbe anche considerare la questione dellʼiper-tecnologizzazione delle nostre cucine, in cui, a seconda dei casi e delle predisposizioni individuali, trovano sempre più spazio roner e Bimby. Non ne faccio una questione di romanticismo primitivista alla “si stava meglio quando si stava peggio”, epperò interroghiamoci un attimo su tutte, e ripeto tutte, le implicazioni del progresso, soprattutto sui versanti del risparmio di tempo (per fare cosa, lavorare di più?) e del risparmio di errori (per evitare di imparare davvero a cucinare?). E infine, sbarcando all’interno dei nostri palati, potremmo provare a contrapporre l’effetto palliativo e rassicurante di certi cibi, che insistono su una dimensione gustativa morbida, grassa e avvolgente, e quelli che invece vivono di contrasti, di spigoli, di piccole sofferenze ben congegnate. In questo senso credo che la celebre insalata 21…31…41…51… di Enrico Crippa del Piazza Duomo di Alba (beato chi come me ha potuto assaggiarla) sia esattamente un grandissimo esempio di quella che potremmo ribattezzare cucina del dolore. In senso positivo, ça va sans dire.

In questa stessa direzione va fatta una citazione anche per Alicia Kennedy, che nella sua newsletter settimanale (link più sotto) parla di canoni gastronomici, soprattutto in riferimento alla scrittura e alla comunicazione. Anche qui, il mondo narcotizzato dei food media contemporanei sta vivendo l’infiltrazione del dolore, del conflitto, del contrasto. Fortunatamente. Prima di chiudere e dare spazio agli articoli degli altri, segnalo che in condivisione trovate, oltre ai pezzi di De Marco e Kennedy, un po’ di recente letteratura che può aggiungere prospettive all’argomento al centro di questa puntata di Burp!. Buona lettura.

Cos’è una ricetta: storia e filosofia di un genere – LʼIndiscreto, 17 marzo

Dario De Marco scrive della ricetta e della sua evoluzione storica, fornendo anche un breve quadro sociologico del suo format e del suo uso attuale. Fa sempre piacere vedere la scrittura gastronomica uscire dalle sue solite “sedi”, ma questo lo abbiamo già detto tante volte.

On Canons – From the Desk of Alicia Kennedy, 15 marzo

Nella sua newsletter settimanale Alicia Kennedy scrive di donne, vegetarianesimo e veganesimo, e di un panorama gastronomico appiattito sul canone dominante. Il suo scopo? Parlare di ciò che non rientra nel canone, dargli visibilità e importanza.

Pandemic drinking shows Americaʼs all-or-nothing attitude toward alcohol: binge or be sober – The San Francisco Chronicle, 17 marzo

Tra salutismo ed elogio della sobrietà, le spinte sociali a un consumo morigerato di alcolici si fanno strada un poʼ ovunque. Scontrandosi, come racconta Esther Mobley, con l’esplosione della “sete” in epoca pandemica.

Thanks for all the dietary advice. Donʼt expect me to pay attention to any of it – The Guardian, 18 marzo

Qui basta tradurre il titolo dellʼarticolo di Jay Rayner, per orientarci: “Grazie per tutti i consigli dietetici. Non aspettatevi che ne ascolti qualcuno”.

How Covid Helped a Neighborhood Rediscover Its Restaurants – The New York Times, 16 marzo

Julia Moskin racconta come la pandemia abbia introdotto una sorta di km 0 nel mondo della ristorazione: a New York si sono riscoperti i ristoranti di quartiere, e la ricerca palliativa del ristorante preferito (ma magari lontano) si è scontrata con la necessità della vicinanza, aprendo nuove prospettive.

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