L’integrazione dei canali di comunicazione con quelli di vendita, un tempo gestiti separatamente, è attualmente al centro degli sforzi delle aziende della moda. I lockdown ripetuti hanno reso necessario esplorare nuovi modi per tenersi in contattato con consumatori da mesi privati della possibilità di una presenza fisica in un negozio. E così stiamo assistendo all’utilizzo pervasivo dell’e-commerce da parte dei nativi digitali (Gen Z, post 2000) come di coloro che i sociologi definiscono immigrati digitali cioè a dire i Millennial (1980-2000), ma soprattutto i Baby boomers che si stanno rapidamente adattando alla nuova situazione.
Più di recente all’e-commerce si è affiancato il social commerce e mentre sono in atto numerosi esperimenti di gamification. Questi vocaboli che nel loro insieme indicano la strada obbligata che tutti – a livello globale – provano a percorrere per recuperare il tempo (e i fatturati) perduti.
Dopo mesi di difficoltà nella vendita al dettaglio l’online è divenuto – per qualsiasi marchio moda – il primo luogo dove essere presenti. È qui che l’accelerazione delle vendite non si è mai fermata, ma intanto continua a crescere. Le aziende di e-commerce con il loro particolare modello di business, in cui lo scambio di beni viene dematerializzato, sono state tra le poche a beneficiare concretamente dalle condizioni generate dalla crisi. Il loro successo è garantito dall’utilizzo degli algoritmi, stringhe di codice che aumentano esponenzialmente la possibilità di far incontrare virtualmente consumatori e produttori.
A questo va aggiunto l’utilizzo dei Big Data: la loro combinazione abilita lo sviluppo di analisi che si vorrebbe capaci di individuare trend di consumo e prodotti di punta, fornendo la possibilità di attuare strategie ad hoc per suggerire (ma il vocabolo più calzante qui è invogliare) qualsiasi tipo di consumo: quello di una sneaker, di un libro o di un oggetto per la casa senza differenza alcuna.
Il mercato dell’e-commerce
L’uso dell’e-commerce vede attualmente le due superpotenze mondiali – Stati Uniti e Cina – impegnate in una competizione serrata. Anche nella moda sono dunque gli ingegneri dell’high tech e i finanzieri delle conglomerate quotate in Borsa a fare da protagonisti: questi ultimi pilotano i progetti, le azioni e gli investimenti necessari che stanno dietro le mirabolanti visualizzazioni confezionate dal designer di turno. Siamo di fronte a un cambio di paradigma: il diaframma estetico modellato dal creatore di moda (un tempo sarto, poi stilista quindi designer ora aggregatore) si è fatto assai più sottile di un tempo. E il consumatore – in specie quello appartenente alla Generazione Z ne è sempre più cosciente.
Nell’e-commerce è Amazon a dominare la scena in Occidente, in Oriente è invece Alibaba. Tra loro fanno guerra di posizione i tre gruppi del lusso più potenti al mondo: i francesi LVMH e Kering e il gruppo sudafricano-svizzero Richemont. Quest’ultimo dal 2018 è anche proprietario dell’e-commerce YNAP nato nel 2015 dalla fusione di YOOX, fondato a Casalecchio di Reno nel 2000 da Federico Marchetti, e Net-a-Porter, fondato nello stesso anno a Londra da Natalie Massenet.
Le strategie milionarie di questi potenti della moda sono complesse. Di recente Richemont ha stipulato un’alleanza con Alibaba annunciando un investimento congiunto di 1,1 miliardi di dollari nella piattaforma – sino a quel momento concorrente – Farfetch fondata nel 2007 a Londra dall’imprenditore portoghese José Neves. In particolare, Alibaba e Richemont stanno investendo 300 milioni di dollari a testa, a cui se ne aggiungono altri 250 ciascuno per una joint venture nuova di zecca, Farfetch China. L’accordo prevede che Farfetch possa aprire store virtuali su Tmall Luxury Pavilion, spin off virtuale dedicato al lusso di proprietà di Alibaba, raggiungendo così il più grande e vivace mercato attualmente esistente per la moda: quello asiatico. Immediatamente anche Kering (tra gli altri Gucci, Saint Laurent, Bottega Veneta…) ha aumentato la sua partecipazione in Farfetch con ulteriori 50 milioni di dollari.
Amazon ha risposto con due iniziative mirate. Il 13 maggio scorso ha annunciato la presentazione di Common Threads: Vogue x Amazon Fashion un nuovo store online dedicato a venti designer indipendenti del Made in Usa: marchi in quel momento a rischio di fallimento dopo che il Covid-19 aveva forzato la chiusura dei negozi che li vendevano.
Il proprietario di Amazon, Jeff Bezos, che di certo non è un benefattore, ha approfittato della situazione di caos venutasi a creare con la pandemia. Amazon ha accesso a un’enorme base di consumatori: solo negli Stati Uniti i membri di Amazon Prime sono 150 milioni. In ottobre poi Bezos ha introdotto la app Luxury Stores orientata proprio a questo ultimi. In Luxury Stores i marchi presenti controllano direttamente il modo in cui i loro prodotti vengono presentati, dissipando antichi pregiudizi che vedevano il mondo del lusso poco propenso a sbarcare su una piattaforma potentissima, sentita in precedenza come assai poco selettiva.
Se la partita per il dominio miliardario dell’on line si sta giocando sulle due sponde del Pacifico, è tuttavia fisiologico che in un settore dinamico come questo si muovano altri competitor. La piattaforma tedesca Mytheresa ad esempio che, grazie alla fidelizzazione di marchi come Bottega Veneta e Prada si distingue per il suo assortimento di prodotti di nicchia, ha registrato un fatturato netto consolidato di 450 milioni di euro in crescita del 18,6% nel 2020. Quando poi nel gennaio del 2021 Mytheresa, ha lanciato la sua IPO a Wall Street la valutazione è balzata a 3 miliardi di dollari solo nel primo giorno di negoziazione.
Il ruolo del Social commerce
Il ritmo accelerato del cambiamento è una costante post-Covid. Se l’e-commerce ha sostituito l’interazione sociale dello shopping in negozio, i social commerce, seppure in modo diverso rispetto al passato, la stanno reinserendo. Si basano infatti sulla partecipazione attiva da parte dei clienti: l’informazione su un prodotto singolo, l’abbinamento di più prodotti in un look o comunque il successo di un trend qui avviene attraverso informazioni ricavabili da blog, sistemi wiki e la condivisione di articoli scritti dai membri delle comunità virtuali che si formano per adesione spontanea. Entro il 2023, le vendite attraverso i social commerce negli Stati Uniti dovrebbero superare i 50 miliardi di dollari l’anno, raddoppiando rispetto al 2020. Il dominio assoluto del settore è comunque detenuto dal cinese Tik Tok dove si prevede che le vendite nel 2021 raggiungeranno i 363,3 miliardi di dollari in aumento di oltre il 35% in un solo anno.
L’utilizzo crescente del social commerce inoltre capovolge un altro paradigma. La Moda da sempre predittiva, si è messa in ascolto. Il modello secondo il quale le aziende propongono i propri prodotti (stili) all’interno dei quali i clienti possono scegliere non sembra più reggere: con l’avvento dei social commerce l’azienda prova a interpretare – ovviamente anche a influenzare – le pulsioni del consumatore. Il mood rilassato di gran parte delle immagini che compaiono su Tik Tok – dove a nessuno importa di presentarsi perfettamente agghindato – sembrerebbe adattarsi esclusivamente a prodotti basici o tendenzialmente sport tech.
Eppure nessun marchio di moda – nemmeno quelli della fascia più alta – vuole esserne escluso. Dior, marchio che evoca da sempre l’allure dell’alta sartoria è entrato a farne parte nel luglio 2020 e proprio per cercare notorietà in special modo tra gli appartenenti alla Generazione Z. Va tenuto conto che circa il 40 per cento delle persone presenti su TikTok non possiede account Facebook. TikTok dunque non è un concorrente diretto dell’ecosistema Facebook caro ai Baby boomers piuttosto un complemento decisamente impossibile da non considerare. Su Tik Tok Charli D’Amelio (maggio 2004) è l’influencer più seguita (Addison Rae, 20 anni, è al secondo posto). I più seguiti su Instagram sono invece Cristiano Ronaldo e Ariana Grande ambedue Millennial, generazione precedente alla Z.
Oltre venti anni fa, nel 1999 per l’esattezza, Levine, Locke, Searls e Weinberger elaborarono The Cluetrain Manifesto nel quale affermavano che il marketing attraverso il web avrebbe consentito conversazioni di tipo personale in grado di trasformare in modo radicale le pratiche commerciali conosciute sino ad allora. The Cluetrain Manifesto intendeva superare il pensiero del ventesimo secolo sul modo di fare business, elencando 95 tesi, esattamente come aveva fatto il Lutero della Riforma Protestante. Quello che allora era apparsa futurologia oggi è divenuta realtà comune.
Gamification
Tra gli effetti della permanenza forzata in casa c’è la maggior quantità di tempo che è stata dedicata ai videogiochi. Realtà aumentata o modellazione 3D, sono nuove frontiere che la distribuzione sta sperimentando per fornire più servizi ai propri clienti e un approccio ludico che pare sempre più gradito. Gli esempi sono infiniti: qui ne elenchiamo alcuni tra i più significativi per l’importanza dei marchi coinvolti. La maison Balenciaga (proprietà di Kering) per presentare la sua collezione autunno-inverno 2021 ha messo in rete lo scorso 6 dicembre Afterworld. The Age of Tomorrow un gioco gratuito che consente di esplorare un mondo virtuale con personaggi vestiti da capo a piedi dal brand.
Gucci ha in portfolio numerose esperienze di gaming: la piattaforma Gucci Arcade contiene una sezione ispirata ai giochi anni ’70 e ’80 in cui è possibile cimentarsi in semplici challenge ispirate ai motivi della maison fiorentina. Burberry ha messo in campo B-Bounce dove i giocatori si misurano con un personaggio a forma di cervo vestito con i capi del marchio. I vincitori sono premiati con GIF personalizzate, ma superato un certo livello possono arrivare ad ottenere un vero capo dell’ultima collezione.
Nella sede di Regent Street, a Londra, Burberry ha installato un mega schermo dove i clienti possono tentare la fortuna. A questo genere di formato si era avvicinata in precedenza la maison Valentino con venti look disegnanti da Pier Paolo Piccioli per gli avatar di Animal Crossing: New Horizons di Nintendo Switch.Lo scorso 7 dicembre, una versione avatar di Donatella Versace è apparsa ai partecipanti nel festival virtuale ComplexLand, dove il marchio ha inserito 100 paia di sneaker acquistabili solo all’interno dell’esperienza virtuale.
La fase di sperimentazione è destinata a intensificarsi nei prossimi anni. Sempre più game designer entreranno a pieno organico nelle maison di moda e al contempo, sempre più aziende dei videogiochi esploreranno la strada di prodotti fisici da vendere in partnership con aziende della moda. Il videogioco Fortnite, ad esempio, ha realizzato gran parte dei 2,4 miliardi di dollari di ricavi nel 2018 vendendo skin per avatar ai suoi 200 milioni di utenti (inclusi alcune di Nike).
Con oltre 2.5 miliardi di giocatori nel mondo, di cui 15 milioni in Italia, i videogiochi sono un medium di riferimento per larga parte dei Millennials e della Gen Z: questi due gruppi costituiranno la fetta di clientela più importante al mondo già a partire dalla seconda metà di questo decennio. Tra loro un’elevata percentuale vive in Cina, non a caso la regione leader anche nel consumo e spesa per videogiochi.
Videogame, social e commerce: l’omnicanalità è in realtà al centro delle strategie di vendita di tutte le imprese oggi attive sul mercato. Che si tratti di food o di fashion, di libri o di opere d’arte poco importa.