Finalmente la resurrezione della moda. No, non sto esprimendo entusiasmo a proposito delle sfilate milanesi. Neanche mancanza d’entusiasmo: sto proprio parlando d’altro.
Sto parlando di uno dei disastri collaterali di questo anno di pandemia: il fatto che nessuno abbia più avuto voglia di comprare vestiti (acquisteresti un abito da sera se la tua massima vita sociale fosse portare a pisciare il cane o andare a fare la spesa? Certo, Karl Lagerfeld organizzava favolose performance in abito da sera al supermercato, ma Lagerfeld è morto e nessuna di noi che non viviamo dentro un servizio fotografico da lui organizzato si sente granché bene).
A questo punto la platea si divide in tre scaglioni.
Quelli molto scemi, che non hanno ben presente che giro di soldi rappresenti la moda e credono che le persone serie si debbano occupare di letteratura, mica di taffetà, e quindi chissenefrega se una delle principali voci d’esportazione italiane va a picco.
Quelli moderatamente scemi, cui sì, dispiace che stiamo tutti in tuta da ginnastica da un anno, ma vuoi mettere come si gira bene per una Milano non trafficata in questa settimana di sfilate che la stampa e i compratori di tutto il mondo seguono in remoto, dagli schermi di casa loro, senza intasarci i ristoranti, rubarci i taxi, farci salire i prezzi degli alberghi. Non userò espressioni come «far girare l’economia» solo perché non voglio sembrare troppo Guido Nicheli, ma insomma, ecco.
E poi ci sono quelli che sospirano, perché sanno che disastro sia stato per l’indotto. Non solo degli stilisti in sé, ma di tutto ciò che guadagnava a cascata: dalla commessa part time che arrotondava durante gli studi, ai giornali che si sostenevano con la pubblicità (compreresti pagine pubblicitarie di abiti da gran galà nell’anno in cui a Natale non puoi avere parenti non stretti a cena?).
Quasi tutto può esistere di nascosto: l’amore clandestino, la bellezza per sé stesse (quella è una balla, ma c’impegniamo tutte molto a fingere di crederci), la cultura non citazionista. La moda no. La moda, come i concerti e gli alberi caduti nella foresta, esiste solo in presenza: se non c’è pubblico non vale, se non ha assistito nessuno non è mai accaduto.
Una tizia vestita da sera sola sul divano tra cartoni di pizza e avanzi di sushi è un ottimo soggetto per una foto di Martin Parr; ma, se mi metto il mio Prada preferito non essendoci in casa mia un ospite né un fotografo, sono un caso psichiatrico, non una modaiola (fashionista, come dicono le milanesi che faticano sia con l’italiano sia con l’inglese). Figuriamoci se, con queste premesse, di Prada ne compro uno nuovo.
Tutto questo fino a qualche settimana fa. Poi sono arrivati i vaccini, e con essi l’occasione di fotograrsi non in tuta.
Certo, per ora si vaccinano solo le vegliarde, ma ciò non osta affatto alla ripresa dell’industria della moda, in un’epoca che fa posare per i giornali patinati la settantaduenne madre di Elon Musk, e in cui l’ottantatreenne Jane Fonda è assai più in forma di quanto lo fossi io a ventitré anni.
Liliana Segre è stata la prima a venire fotografata, e ancora non sapeva cosa fosse più fotogenico mettersi (il dress code, direbbero le stesse milanesi di prima) per la vaccinazione. Tuttavia il risultato è stato eccellente, nonostante la scomodità dell’abbassare la scollatura d’un abito a maniche lunghe per scoprire la parte alta del braccio in cui s’infila l’ago: c’era il giusto ritegno che t’aspetti da una figura come quella della Segre, la seta blu delle signore sobrie ma non così inattrezzate da vestirsi di nero, e il perfettissimo giro di perle.
Dopo di lei, ho notato che tutte – è il vantaggio d’avere trascorso molti anni in compagnia di sé stesse – conoscono perfettamente il proprio stile, e ne fanno sfoggio nelle prime foto posate dopo un anno di casalinghitudine e riservatezza (le ottantenni, diversamente dalle quarantenni, non ci hanno infelicitato con un anno di dirette Instagram).
Rosita Missoni viene vaccinata, ovviamente, in Missoni (uno zebrato con guanti rossi a contrasto di grande sciccheria, d’altra parte è il suo mestiere). Carla Fracci nel suo abituale cashmere bianco (potrei sbagliarmi, ma parrebbe Laura Biagiotti). L’ottantottenne fra due settimane Sandra Milo, la cui foto di vaccinazione è arrivata ieri, ha avuto più di una settimana per capire cosa fosse più adatto, e il suo red carpet vaccinale era perfetto, una giacca rossa dallo scollo abbastanza ampio da calarsi con facilità su una spalla, una spilla elegante a chiuderla.
Intanto l’Independent informava le inglesi che possono tornare a comprare vestiti, ma mica per frivolezza: per facilitare la vita a chi deve vaccinarle. A illustrare l’articolo, bluse monospalla d’ogni genere. Se arrivi con la camicetta (se la temperatura è già primaverile) o la maglia che già ti scopre la spalla, non devi neanche calartela con vezzosità lilianasegriana.
È un articolo che mi ha causato reazioni controverse. Sono felice per la capacità d’adattamento dell’industria della moda, che se l’unica occasione in cui torniamo a fotografarci è la vaccinazione ci vende abiti da vaccinazione, e quindi monospalla. Ma sono assai triste per me, che da sempre odio l’asimmetria e considero i monospalla la peggior invenzione della storia degli stilisti (la moglie di Harvey Weinstein produceva abiti monospalla, e tuttora mi pare il peggior lascito di quell’uomo).
Mi consolo pensando che non lavoro in nessun settore indispensabile e non ho passato gli ottant’anni: prima che venga il mio turno di vaccinarmi, farò in tempo a educare il mio sguardo a farsi piacere le bluse asimmetriche. Per evitare il problema che mi ha esposto l’altro giorno un’amica novantaduenne: mi devo vaccinare, e non ho niente da mettermi.