Dopo l’annuncio di due settimane fa, lo scorso giovedì il passo ufficiale: Fidesz, il partito del presidente dell’Ungheria, Viktor Orbán, lascia il Partito popolare europeo (Ppe). Finisce così la convivenza forzata, e da ambo le parti mal sopportata, tra una delle grandi famiglie politiche continentali e la formazione nazionalista e anti europeista guidata dal leader ungherese, campione dei sovranisti europei.
Quanto Orbán e il suo partito fossero considerati corpi estranei all’interno del popolarismo europeo lo dice in modo chiaro ed esaustivo l’annuncio social di Donald Tusk, presidente del Ppe: «Fidesz ha lasciato la democrazia cristiana. In realtà se n’è andato molti anni fa».
In effetti, l’ascesa di Orbán ha cambiato radicalmente la natura del partito moderatamente euroscettico delle origini. Fidesz è infatti approdato ormai da più di un decennio all’antieuropeismo e all’ultraconservatorismo di destra. E, sempre più, risulta proteso verso oriente. Ed essendosi trasformato dal 2010 (ossia da quando Orbán governa ininterrottamente) un vero e proprio partito-Stato di sovietica memoria, Fidesz sta trascinando l’intera Ungheria in questo disconoscimento dell’Occidente liberaldemocratico e socialdemocratico.
Nessun settore della società ungherese è risparmiato dall’attivismo antioccidentale di Orbán. In primo luogo, quale autentico biglietto da visita, ci sono la lotta instancabile contro il mondialismo, il multilateralismo e il multiculturalismo. Gli ingredienti principali della propaganda di Orbán sono fake news e leggende metropolitane complottiste. E dal premier ungherese e dal suo partito tutto ciò che ha carattere sovranazionale – come l’Onu, la Nato e, soprattutto, l’Unione europea – è descritto come un’opera del male che attenta alla sovranità della patria.
Vittima illustre di questa tipica demonizzazione di stampo populista è George Soros, l’imprenditore e filantropo ungherese che del mondialismo e del multiculturalismo è un autentico simbolo vivente. Additato alla stregua di un nemico pubblico, Soros ha visto come la lotta scatenata contro la sua figura da Orbán e dai suoi sia culminata con l’espulsione dal territorio ungherese della prestigiosa università da lui fondata, la Central european university (Cue), fondata nel 1991.
Considerata un’eccellenza dell’Europa centrale, e accreditata anche negli Stati Uniti, la Cue ha formato in trent’anni 17mila studenti provenienti da oltre 100 Paesi. Molti di questi hanno poi rivestito ruoli pubblici chiave o sono diventati membri di spicco della società civile. Dopo una lunga battaglia legale terminata alla fine del 2018, nel 2019 la Ceu è stata costretta a trasferire fuori dall’Ungheria la maggior parte delle attività accademiche.
Il presidente della Central european university, Michael Ignatieff, ha espresso al riguardo una dichiarazione amara e, al contempo, gravida di significato geopolitico: «Un’istituzione americana è stata cacciata da un Paese che è alleato della Nato. Un’istituzione europea è stata estromessa da un Paese membro dell’Unione europea». Questa sua opinione è stata condivisa anche dalla Corte di giustizia dell’Ue, che riguardo a questa vicenda ha parlato di violazione del diritto europeo da parte dell’Ungheria.
A proposito di geopolitica, la meta auspicata da Orbán è fin troppo chiara. Basti pensare che, appena un anno e mezzo dopo la cacciata dell’università di Soros, a Budapest è stato inaugurato il primo (e finora unico) campus universitario cinese operante nel territorio dell’Unione europea: la Fudan University di Shanghai. Si tratta di un investimento del premier ungherese nel rafforzamento dei suoi rapporti con Pechino che, a quanto pare, vengono rinsaldati a scapito di quelli con l’Europa. Va notato, al riguardo, che il governo ungherese ha accolto l’arrivo del campus cinese con una donazione di 2,2 milioni di euro, mentre l’indesiderata università fondata dal filantropo Soros, anziché costare al governo di Budapest, contribuiva all’economia del Paese con ben 24 milioni di euro all’anno.
Identica a questa è la strategia adottata da Orbán in campo economico, che è all’insegna dell’ostruzionismo verso ciò che implementa l’integrazione europea e della promozione di ciò che invece contribuisce a disgregarla. Vedasi l’adesione immediata, acritica e non concertata coi partner europei al maxi progetto infrastrutturale cinese Belts and Roads. Lusingata dalla posizione interessatamente privilegiata che la Cina le ha subito destinato, l’Ungheria, più che di negoziare, ha cercato di svincolarsi dagli altri Stati europei. Un approccio, questo, che è rimasto invariato fino ai giorni nostri, quando il Paese guidato da Orbán ha fatto ostruzionismo sull’approvazione del NextGenerationEu.
Tutto ciò è condito da una quotidiana battaglia del governo ungherese contro la libertà di espressione, contro la stampa libera e, più in generale, contro ogni forma di dissenso. La democrazia in Ungheria è di fatto sospesa. E certamente questo non è un problema per Mosca e Pechino, i punti di riferimento del governo di Budapest.
È comprensibile, quindi, il senso di liberazione esternato da molti membri del Partito popolare europeo per la fuoriuscita di Fidesz. Ma il Ppe ci ha messo del suo nel lasciare campo libero all’esuberanza nazionalista di Orbán. In tutta Europa, il Ppe ha peccato di lassismo opportunista, tollerando (in funzione anti PSE) impulsi sovranisti al suo interno e lasciando così proliferare e prosperare indisturbate tante formazioni antieuropeiste, nell’illusoria convinzione di riuscire poi a controllarne la forza.
Ma l’effetto valanga, che negli ultimi anni ha minacciato seriamente l’Unione europea, è stato invece fermato anche grazie a un rinnovato slancio dei Verdi europei. Nelle ultime elezioni europee (2019), l’ascesa dei Verdi in molti Paesi (ma non in Italia) è stata infatti decisiva per bloccare l’assalto sovranista, che nel suo complesso non è andato oltre la conquista di un quinto circa dei seggi a Strasburgo.