I Conte-VersteherLa pazza idea di fare il governo con Draghi pensando ancora ai populisti

Letta rischia di ritrovarsi in una strana terra di nessuno, tra i leghisti intenti a valorizzare ogni segnale di discontinuità e i nostalgici del contismo impegnati ora nel sostenere che non è cambiato nulla, ora che ogni cambiamento è un peggioramento

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La baruffa su chi, tra le due aspiranti capogruppo parlamentare del Pd, fosse più «autonoma» e meno «raccomandata» dai parlamentari che avrebbero dovuto eleggerla (e che ieri hanno infine eletto Debora Serracchiani: auguri) ha finito per oscurare altri e non meno inquietanti segnali di avvitamento provenienti dal Partito democratico. Il principale dei quali riguarda, dopo il solenne incontro e le calde parole di elogio dedicate da Enrico Letta a Giuseppe Conte, il rapporto con il populismo grillino, che non è una questione di alleanze, come dicono quelli che non capiscono il punto e quelli che non lo vogliono capire, ma di identità, collocazione e cultura politica.

In questo quadro, la nomina di Francesco Boccia nella nuova segreteria era passata finora, erroneamente, abbastanza inosservata. L’intervista alla Stampa dell’ex ministro agli Affari regionali, a suo tempo capace di definire Conte «il nostro Bearzot», lascia pensare però che non sia lui a doversi ricredere. Ma semmai chi, come me, aveva intravisto nel Pd un cambiamento di linea politica, e non solo di facce. 

«Nel 2023 la partita sarà Letta-Conte contro Salvini-Meloni», ha detto ieri Boccia, proponendo addirittura, per le amministrative, primarie di coalizione allargate ai cinquestelle. Uno schema che obiettivamente somiglia parecchio a quel «nuovo centrosinistra» di cui parlava fino a ieri Nicola Zingaretti, e di cui tutti ricordano chi fosse, non per caso, il «punto di riferimento fortissimo».

Qui però bisogna aggiungere una notazione, a parziale scusante di Zingaretti, spesso criticato per i suoi cedimenti a ogni capriccio grillino. Perché se è vero che la nascita del governo Draghi ha dimostrato come, pur di non tornare a votare, i Cinquestelle avrebbero ingoiato qualsiasi cosa, è pur vero che, quando era Zingaretti a trattare con loro, i grillini erano ancora relativamente in forze, e comunque in una condizione nemmeno lontanamente paragonabile all’attuale spirale di spappolamento organizzativo e sputtanamento politico.

Per quale ragione, dunque, proprio quando sembrano affondare in un patetico pantano di carte bollate e polemiche interne, tra Davide Casaleggio che vuole i soldi e i suoi androidi anticasta che non vogliono mollare le poltrone, come direbbero loro (se non si trattasse di loro, s’intende), perché, perché, perché correre proprio adesso in soccorso degli sconfitti?  

C’è una sola spiegazione. E non è una malintesa idea di realismo politico, non è tatticismo, non ha nulla a che vedere con le solite accuse di cinismo e spregiudicatezza con cui ci piace bollare i politici colpevoli di non fare quello che pensiamo noi. La verità è più semplice e più tragica allo stesso tempo, ed è che il populismo grillino, al nuovo come al vecchio Pd, piace abbastanza. E non solo al Pd, purtroppo.

Ho appreso dall’articolo di Maurizio Stefanini pubblicato ieri su Linkiesta dell’esistenza, nel dibattito pubblico tedesco, della categoria del Russlandversteher, parola composta da Russland (Russia) e Versteher (colui che capisce). Espressione nata per indicare quel genere di politici e intellettuali i quali, pur non appartenendo alla fazione dei più convinti e appassionati difensori della Russia (i cosiddetti «Euroasianisti»), mostrano tuttavia una spiccata inclinazione a comprenderne le ragioni. E così, pensavo, si potrebbe dividere anche il mondo politico-intellettuale genericamente appartenente all’area giallorossa, fautore dell’appeasement con i grillini, in due campi analoghi: i Conte-entusiasti e i Conte-comprensivi.

L’appartenenza di Boccia ai Conte-entusiasti non è certo una sorpresa, ed è perfettamente coerente con quanto l’ex ministro ha detto e fatto negli ultimi anni. Il problema si pone però per Letta e per il suo Pd, nel momento in cui pretenda di adottare le posizioni dei Conte-comprensivi, ma contemporaneamente voglia anche contendere al centrodestra l’egemonia sul governo Draghi, e in prospettiva sulla sua eredità politica. Con il rischio di ritrovarsi presto in una strana terra di nessuno, tra i leghisti intenti a valorizzare ogni segnale di discontinuità e i nostalgici del contismo impegnati ora nel sostenere che non è cambiato nulla, ora che ogni cambiamento è in realtà un peggioramento. 

Sta di fatto che non si può essere contemporaneamente atlantisti e putiniani, europeisti e antieuropeisti, riformisti e populisti: tocca decidersi. Se i nuovi vertici di Largo del Nazareno pensano che il Pd debba stare nel governo Draghi trascinando i piedi e facendo capire ai propri elettori che in fondo si stava meglio quando si stava peggio – cioè quando c’era Conte – facciano pure. Ma poi non si stupiscano se quelli, prendendoli in parola, voteranno per lui. E non per loro.

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