Nel gran caos del linguaggio politico, si è aggiunta una nuova parola, o dovremmo dire parolaccia: cooptazione. Ora, la cooptazione è uno dei possibili modi di selezione dei gruppi dirigenti, in qualunque settore. Nell’accademia, per esempio, è ineliminabile, a meno che la si voglia sostituire col sorteggio: chi, se non i fisici della materia, giudicherà un fisico della materia? Certo, è un metodo che può facilmente degenerare (come qualunque altro) e che deve essere controllato e sottoposto a correttivi. Nel caso dell’accademia, il correttivo principale è la reputazione, nazionale e ancor più internazionale, dell’organismo che coopta, e quindi il vantaggio o svantaggio che a esso può derivare da chi viene cooptato/a.
In politica, sembra oggi che a essere cooptate siano sempre e solo le donne. Ma non è così. In alcuni casi ci sono elezioni (come per i capigruppo); in altri, in specifico nel caso degli organismi operativi, il segretario coopta. Uomini e donne. Il problema allora non è il metodo, ma la qualità e la rappresentatività delle persone. La qualità di un/a dirigente non si valuta col bilancino; è un titolo reputazionale, costruito nella sua storia personale e nelle sue attività.
La rappresentatività è legata di solito all’appartenenza a un’area del partito o meglio (altra parolaccia) a una corrente. A volte ad attività svolte nella cosiddetta società civile, per esempio in una associazione. La polemica sulle donne cooptate puzza di ipocrisia. È legata a quell’idea generica e puramente retorica che ci vogliono le donne. Ma chi sono le donne? Un accessorio che si può portare o no, come l’ombrello (copyright Letizia Paolozzi)?
A meno che siano intese come un animale particolare o, peggio, come una corrente tra le correnti (cosa che speriamo di non vedere mai), le donne sono, esattamente come gli uomini, persone con nome e cognome, che hanno meriti e demeriti, qualità, reputazione, rappresentatività. Alcune più, altre meno.
Non perché le donne siano uguali agli uomini, ma perché se le vediamo come un tutto indistinto restiamo dentro il paradigma che riesce sempre a escluderle dai ruoli di comando. Il problema delle donne nella politica italiana è che non riescono ad arrivare alla leadership, a bucare il famoso tetto di cristallo. Forse bisognerebbe discutere un po’ sui motivi. Quanto a me, sostengo da tempo che l’enfasi sulle quote, che ha certamente aumentato il numero di donne presenti in politica, abbia però impedito anziché favorito la creazione di leadership femminili.
Anche la polemica sulla cooptazione va nella stessa direzione: è un modo per tagliare le gambe a una possibile leader. Ma, nel momento in cui si pone, giustamente, il problema che il Partito democratico non può presentarsi all’esterno con una sfilza di uomini, manco fosse il partito comunista cinese, e si apre alla Camera quella che potrebbe e dovrebbe essere una competizione del tutto legittima, sollevare l’accusa infamante di essere cooptata è più che una stupidaggine; è un’accusa ridicola e fuor di luogo, là dove è prevista una votazione a scrutinio segreto. È anche involontariamente autolesionista. Chi è senza peccato… verrebbe da dire.
Ma preferisco dire che le donne dovrebbero conquistare, come condizione irrinunciabile per approdare alla leadership, il coraggio di riconoscere la propria ambizione e insieme legittimare l’ambizione delle altre, invece di colpirle con accuse infamanti. Questo significa anche abbandonare l’idea che le donne siano una specie di angeli senza sesso, ovvero senza corrente.
Le donne sono persone con le loro appartenenze, le loro relazioni, i loro debiti e crediti. A cominciare da Tony Blair, che le usò per rinnovare a sua immagine il gruppo parlamentare del Labour, le donne vengono usate, e si lasciano usare, come alternative alle correnti. Farebbero meglio a farci conoscere le loro idee, senza nascondersi dentro un presunto soggetto collettivo. Altrimenti resteranno sempre seconde, sempre, come dice qualcuno, cooptate.