Non sparate sull’apparatoLo scontro Madia-Serracchiani è un perfetto apologo sui rischi dell’autodemonizzazione democratica

Le correnti che soffocano il partito sono sempre quelle degli altri, le proprie sono semmai spaziosissime «aree» o, al massimo, «correnti di pensiero» (neanche parlassimo dei giovani hegeliani). Il risultato è comunque quello che avete sotto gli occhi

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Il dibattito su chi sia più «autonoma» e su chi sia invece «cooptata», tra Marianna Madia e Debora Serracchiani, nel momento in cui si tratterebbe di scegliere non già un giudice della Corte costituzionale, ma il capogruppo del Partito democratico alla Camera, è un apologo talmente perfetto che si sarebbe tentati di lasciarlo così.

Ad aggiungere inutili spiegazioni, per sfiducia nell’altrui intelligenza, per insicurezza riguardo alle proprie capacità espressive, per la solita ansia di metter bene in evidenza la morale della favola e il suo alto valore pedagogico, si rischia solo di rovinare quello che il caso e la natura, insuperabili artisti, hanno già perfettamente modellato, e che effettivamente non manca di nulla. Come direbbe un maestro zen: sarebbe inutile quanto mettere un cappello sopra quello che si ha già in testa, o grattarsi la scarpa perché prude il piede.

Se però un tale dibattito è divenuto possibile, è evidente che anche tra coloro che stanno leggendo queste righe potrà ben esserci qualcuno che lo trovi normale: che trovi normale, cioè, che la decisione su chi debba guidare i parlamentari di un partito possa essere presentata in quei termini, quasi che persino qui si volesse denunciare la lottizzazione partitocratica e lo schiaffo ai tanti talenti ignorati della società civile. A tal punto è arrivata la lunga egemonia del pensiero populista e antipolitico, fondato sulla radicale delegittimazione dei partiti, del Parlamento e dello stesso principio di rappresentanza, che sarà meglio spiegare la battuta: per fare il capogruppo parlamentare di un partito è indispensabile essere un parlamentare di quel partito – ci siamo fin qui? – ed essendo il capogruppo eletto dai suddetti parlamentari, affinché li rappresenti e li guidi, è altrettanto necessario che sia da loro gradito e apprezzato, non vi pare?

Siccome però la realtà è spesso più didascalica di qualunque cronista, a tutto questo bisogna aggiungere il dettaglio che a scontrarsi sono proprio Madia e Serracchiani, ciascuna a suo tempo assurta a simbolo delle forze del rinnovamento in lotta contro i vecchi burocrati e le deprecate correnti. A conferma di quanto una simile retorica sia spesso fasulla e in ogni caso ipocrita: le «correnti» che soffocano il partito sono sempre quelle degli altri, le proprie sono semmai spaziosissime «aree» o, al massimo, e senza tema di ridicolo, «correnti di pensiero» (neanche parlassimo dei giovani hegeliani). Il risultato è comunque quello che avete sotto gli occhi.

«Possibile che il Pd non riesca mai, mai a occuparsi d’altro che di se stesso?», si è domandato su Twitter, ad esempio, Giancarlo Loquenzi. Possibilissimo, e anche facilmente spiegabile. Per la precisione, è dai primi anni Novanta che la politica, e il centrosinistra in particolare, si occupa quasi solo di leggi elettorali e riforme istituzionali (cioè di come eleggere i parlamentari e le altre cariche istituzionali), mentre il Partito democratico e i suoi partiti-predecessori si occupano solo di congressi e primarie (cioè di come eleggere il proprio gruppo dirigente). Con analoghi risultati su entrambi i fronti. E poi dicono che in periferia prendono pochi voti.

Provate a dire a un gruppo di militanti del Pd che siete per la totale libertà di licenziamento, oppure per rimettere l’articolo 18 anche per le imprese con un solo dipendente; o che siete per la completa privatizzazione della sanità, o invece che volete l’esproprio senza indennizzo di tutte le industrie private: non riuscirete comunque a suscitare un decimo dello sdegno e della furia polemica che vi colpirà se vi sognerete di mettere in discussione la bontà del doppio turno alla francese o del bipolarismo di coalizione, per non parlare delle primarie.
Ecco la ragione per cui il Pd non riesce mai a parlare d’altro, perlomeno non «con lo stesso dispendio di tempo e di energie», come dice Loquenzi.

Il fatto è che a sinistra sono trent’anni che non si discute d’altro. Si discute solo di regole del gioco, e questo è anche il motivo per cui, di fatto, non si gioca mai. Esempio. Qual è la prima scelta di politica nazionale su cui Enrico Letta ha scartato rispetto alla posizione del suo partito, annunciata un minuto dopo la sua elezione? Il ritorno al Mattarellum. E sulle Amministrative a Roma? Che si faranno le primarie. Non credo serva altro per dimostrare la tesi.

Ci si potrebbe domandare, semmai, se sia per questo che su tutto il resto non si sa che cosa dire, o se viceversa sia proprio perché sul resto non si ha nulla da dire che si discute solo di questo. Ma è un po’ come chiedersi se sia nato prima l’uovo o la gallina: chissenefrega.
È invece molto significativo anche il modo in cui se ne discute, perché la furia antipartitica e antiparlamentare che sta dietro una certa retorica del maggioritario – non per niente coeva di Mani Pulite – è perfettamente speculare alla retorica para-stalinista contro le correnti. Un approccio che da trent’anni, simile a una profezia che si autoavvera, produce esattamente i difetti che vorrebbe contrastare: il trionfo di Beppe Grillo da un lato e di Clemente Mastella dall’altro, i veri dioscuri del bipolarismo italiano. O, se preferite, l’Italia dei valori di Antonio Di Pietro, vale a dire il partito populista che ha portato in Parlamento Antonio Razzi e Domenico Scilipoti.

Applicate la stessa ricetta alla vita interna del Pd e avrete l’incresciosa vicenda dello scontro sui capigruppo, che poi è solo l’ultimo esempio di una simile dinamica. E il risultato, guarda un po’, tutto sembra meno che un bello spot per il partito e per il suo nuovo segretario, che ne è del resto il principale responsabile.

La posa del leader che si scaglia contro gli apparati è da sempre il modo in cui nel Pd si conduce la lotta di corrente, allo stesso modo in cui nel centrosinistra la campagna contro i «vecchi partiti» è la maniera in cui questo o quel gruppo, ottenuta la leadership, tenta regolarmente di emarginare i rivali. Un processo di autodemonizzazione che ha prodotto due esiti: esasperare le divisioni all’interno e disgustare gli elettori all’esterno.

Dopo trent’anni di un simile andazzo, visti i risultati, forse sarebbe il caso di provare a sperimentare un metodo più sincero e più costruttivo di governare le rispettive ambizioni.