Il post FofòLa riforma della giustizia del ministro Cartabia e la lenta fine del giustizialismo grillino

Il nuovo Guardasigilli è una delle testimonianze della discontinuità con il governo Conte. L’approccio diplomatico, il nodo prescrizione affrontato senza soluzioni di forza, il rispetto della presunzione di non colpevolezza sono segni inequivocabili di separazione rispetto al populismo giudiziario del suo predecessore Bonafede

Lapresse

Secondo alcuni organi di stampa vedovi del passato governo, il governo Draghi sarebbe la prosecuzione del Conte bis con altre facce. Una vulgata già smentita altre volte, l’ultima delle quali è la pubblicazione del programma di riforme giudiziarie tracciato dal neo ministro di giustizia Marta Cartabia.

L’ex presidente della Corte Costituzionale rappresenta senza ombra di dubbio una delle punte di lancia riformiste del governo e le sue linee guida lo dimostrano, marcando una netta discontinuità col metodo e le idee (parola grossa) del predecessore.

Guardiamo ad esempio la giustizia penale, un terreno spinoso dove si era consumata l’esperienza del Conte bis costretto alle dimissioni pur di evitare un plateale voto di sfiducia al suo fedele Guardasigilli.

L’approccio diplomatico di Cartabia non può celare il significato inconciliabile coi dettati giustizialisti di alcune delle direttive contenute nel suo manifesto. A cominciare dal carcere e dalla famosa formula della certezza della pena, cavallo di battaglia del giustizialismo dei Cinquestelle, che il nuovo ministro corregge affermando che la necessità di una pena effettiva non coincide con quello della necessità del carcere.

Dunque spazio alle misure alternative alla detenzione, alla giustizia riparativa e a un allargamento delle condizioni di improcedibilità dell’azione penale, insomma una rivoluzione gentile ma decisa.

Se non bastasse questo, vi è anche un altro tema scottante che Cartabia intende affrontare sempre a modo suo: la prescrizione.

Anche qui si nota un approccio morbido e molta moral suasion (del resto non è un mistero che il suo sia uno dei nomi papabili come successore di Sergio Mattarella al Quirinale e il banco di prova a via Arenula può essere un ottimo viatico). Niente soluzioni di forza e blocco coattivo della precedente riforma di Alfonso Bonafede, profittando del fatto che gli effetti di essa non si vedranno prima di un paio di anni.

Il vero nodo per il Guardasigilli è la durata del processo penale in Italia del tutto incomparabile con gli standard europei: dunque bisogna ridurre il numero dei processi e degli appelli con l’ampliamento di riti alternativi come il patteggiamento e un maggior uso di sanzioni economiche effettive più che pene afflittive.

Più facile a dirsi che a farsi, era un’idea professata anche da Bonafede, ma  Cartabia ci mette la tenacia del riformismo vero, quello che va al cuore dei problemi senza trascurare la realtà politica e i rapporti di forza dentro il governo.

Il nodo cruciale se si vuole superare il meccanismo della prescrizione è quello delle conseguenze sanzionatorie degli eccessivi ritardi. Qui si era incagliata la precedente riforma.

Bonafede aveva immaginato delle vaghe iniziative disciplinari per i magistrati neghittosi che non avrebbero avuto alcun impatto deterrente, specie nel Consiglio superiore della magistratura pre-Palamara.

Cartabia accenna sfumatamente a un istituto, la prescrizione del processo, con il quale lascia intendere che se non si vuole ripristinare la vecchia famigerata prescrizione del reato comunque si dovrà pensare a un meccanismo che eviti la condizione di imputato a vita a un cittadino inquisito: decorso un certo tempo accettabile, se non si cancellerà il reato allora si estinguerà il processo. E chi ha orecchie intenda ciò che di dirompente questa innovazione presenta a fronte del pensiero di Marco Travaglio e del giustizialismo populista.

Non sarà certo facile una simile innovazione e, se è consentita una osservazione, l’assortimento della commissione di studio scelta dal ministro per il varo della riforma presenta un evidente scompenso: tanti magistrati e accademici. Un po’ poco, la scarsa presenza degli avvocati nel cuore dei gangli vitali della giustizia è una vera e propria questione di parità di genere da risolvere prima o poi.

Infine, e non da ultima, Cartabia tratta nel suo programma un’altra questione scabrosa: il problema del rispetto della presunzione di non colpevolezza porta fatalmente alla ribalta il rapporto assai controverso tra informazione e procure.

Martedì su un canale pubblico abbiamo assistito a un impressionante spot pubblicitario di un’inchiesta penale. Ne abbiamo già viste cose così ma una certa informazione non perde il vizio.

L’emozionato cronista, Riccardo Iacona, nella puntata di Presa Diretta interamente dedicata a un’indagine denominata “Rinascita-Scott”, ha parlato dell’arresto di 334 «mafiosi» (”lui sa” che sono già tali senza processo) omettendo il non trascurabile particolare di numerose scarcerazioni già decretate dal riesame e dalla Cassazione.

Il punto è che la verifica processuale ancora non c’è stata mentre le cronache riferiscono di una anomalia raramente riscontrata in processi del genere: la preventiva ricusazione di alcuni giudici da parte non degli infidi avvocati ma a opera dei procuratori. Pare che in precedenza i giudicanti avessero assunto decisioni non in linea con le teorie dell’accusa.

Nessuno sembra curioso di capire se questo risponda alle regole del giusto processo: la procura che cerca un giudice di suo gradimento.

Può sembrare stucchevole ma esistono un articolo della Costituzione e una direttiva europea che vieterebbero cronache così schierate addirittura sul servizio informativo pubblico.

Entrambi, guarda caso, tutelano il principio di non colpevolezza richiamato proprio dal ministro Cartabia e di esso il giornalista Iacona e il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri hanno fatto polpette, in nome della trasparenza democratica sia pure con il robusto quanto involontario concorso di qualche avvocato difensore (intervistato per qualche minuto) che ha favorito le peggiori e più sprezzanti intenzioni caricaturali verso le difese di alcuni imputati (i presunti consigliori mafiosi).

Del resto perché stupirsi? Sulla stessa rete fu trasmessa una cronaca di un altro monumentale processo alla mafia (Mafia Capitale) in cui si celebrava l’inchiesta della procura trascurando che intanto una sentenza poi confermata in Cassazione avesse certificato la mancanza di un ingrediente non trascurabile: la mafiosità.

Il punto cruciale lo ha chiarito il procuratore capo di Catanzaro Gratteri che va apprezzato per la sua brusca chiarezza: a suo dire lo stato di guerra in atto in Calabria richiede che si adottino prassi e strappi in deroga al regime legislativo ordinario.

Un bivio che il magistrato pone di fronte al governo e al guardasigilli: in Calabria e non solo, l’ordinario processo penale è un lusso che lo Stato non può concedersi.

Paradossalmente a capire la gravità del problema è stata l’Associazione nazionale magistrati che si è spaccata non su una nomina ma proprio sulle anomalie dei rapporti tra stampa e procure e le cronache riferiscono che l’oggetto del contendere tra Area e le correnti conservatrici fossero proprio le modalità informative adottate dal procuratore Gratteri.

Fa piacere che qualcuno capisca che il problema di democrazia, al contrario di ciò che proclamava Iacona ieri sera, non sia solo la grande criminalità ma anche una narrazione faziosamente politica dell’azione giudiziaria strumentale a una visione sociale fortemente autoritaria.

Se è sventurato il Paese che ha bisogno di eroi (Brecht), l’Italia oggi versa in una condizione grave ed è bene che le forze democratiche siano sensibili al tema. E che lo sia il ministro Cartabia. Ancora una volta: la variante giustizia.

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