«La Cartabia al posto di Bonafede è come sostituire Gigi D’Alessio con i Pink Floyd», scrive qualcuno su Twitter. I gusti musicali non si discutono, ma l’avvicendamento imposto dal premier Mario Draghi al Ministero della Giustizia fa rumore. Più che discontinuità, c’è un abisso. Quantomeno sul profilo del Guardasigilli.
Dall’avvocato “manettaro” alla costituzionalista cattolica attenta ai diritti dei detenuti. Lui le cuffie da deejay esibite in gioventù nelle discoteche di Mazara del Vallo, lei gli AirPods con cui ascolta i Metallica mentre fa jogging. Due rette parallele che tutt’al più si sfioreranno per il passaggio di consegne.
La nuova inquilina di Via Arenula si chiama Marta Cartabia, ha 57 anni, è cresciuta tra Milano e Varese. Esperta di diritto comunitario e diritti fondamentali, in cattedra alla Bicocca e alla Bocconi.
Prima donna a diventare presidente della Corte Costituzionale, tra i giudici più giovani nella storia repubblicana. Eppure la conoscono più all’estero che in patria. Da noi capita persino di trovare alcuni lanci d’agenzia in cui campeggia il cognome Cantabria. Mestieraccio, quello del correttore automatico.
Insieme a Sabino Cassese, quello della Cartabia è uno dei pochi profili italiani presenti nel dibattito giuridico internazionale. Sulla rubrica del suo telefono i numeri dei presidenti delle Corti Supreme di mezzo mondo, oltre a quelli degli ultimi due presidenti della Repubblica con cui il rapporto è saldo.
Allieva di Valerio Onida, si è formata anche negli Stati Uniti. Lì il suo punto di riferimento è stato Joseph Weiler, giurista ebreo di fama mondiale in forza alla New York University e amico di Giorgio Napolitano. I due si incontrarono pure nell’estate 2011 in un dibattito pubblico al Meeting di Rimini. Poche settimane prima che l’allora Capo dello Stato nominasse la professoressa alla Consulta. Parlarono anche di lei.
«Marta ha una profonda conoscenza dell’ordinamento giuridico e una particolare competenza tecnica», spiega a Linkiesta un autorevole giurista che lavora a stretto contatto con lei.
Fin qui il profilo della prof, riservata e attenta al rapporto con la stampa. Pochi i dettagli noti al pubblico: gli occhiali tondi dalla montatura sottile, le collane e gli orecchini ricercati. Oltre ai Metallica, la presidente emerita ascolta i Beatles. Cita Vaclav Havel, poeta e politico perseguitato dal regime comunista della Cecoslovacchia. Una delle parole che ripete di più, anche ai suoi studenti, è “realismo”. Poi c’è la famiglia. Il marito Giovanni Maria. I tre figli: Miriam, Andrea e Simone. «Con loro è piuttosto severa, quasi un generale», racconta chi ha frequentato la casa milanese dell’ex giudice costituzionale.
Oltre al diritto, l’altra passione è la montagna. Passeggiate, trekking, arrampicate. Le vacanze si fanno in Val d’Aosta, dove la giudice ha una casa in località Ollomont. Non c’è pace neanche in vetta. Agosto 2018, dopo la svolta del Papeete e la caduta del primo governo Conte, cominciò a girare il nome di Marta Cartabia per Palazzo Chigi. I cronisti la cercavano. Lei era impegnata a scalare la vetta del Gran Paradiso, 4.061 metri, un percorso tra ghiaccio e rocce. «Superati i 2500 metri di altezza non c’era più linea telefonica, abbiamo tirato un sospiro di sollievo. Ma i giornalisti erano a valle ad aspettarci», racconta chi quel giorno era in cordata con lei.
Di lei si sa poco, ma la sua appartenenza a Comunione e Liberazione non è un mistero. Amica di Julian Carron, presidente del movimento ecclesiale, partecipa alle assemblee dei responsabili. Ogni estate fa tappa al Meeting di Rimini, qui ha incontrato pure Mario Draghi. A Roma, invece, poca vita mondana. Piuttosto jogging e messe. «Non ha mai frequentato i salotti, Marta riassume in sè l’efficienza varesotta», spiega chi la conosce bene. La si vede più facilmente a scuola di comunità, appuntamento settimanale ciellino dove don Eugenio Nembrini, responsabile romano di CL, la saluta come «la prima della classe».
L’etichetta di “ciellina” la accompagna malignamente ogni volta che si fa il suo nome per un incarico. Come fosse una zavorra. «Nel lavoro – racconta un collega di lunga data – ha mostrato come la sua fede e l’appartenenza a una certa cultura politica siano state fattori di comprensione della realtà, mai di soluzione. Ha un’istintiva attenzione per quelli che normalmente verrebbero considerati cattivi e allo stesso tempo adotta una certa precauzione davanti ai presunti buoni».
Per Cartabia un inquadramento politico è difficile: sicuramente non è di sinistra, né può essere accostata alla destra sovranista. Cattolica, sempre. Grillina neanche a parlarne. Nei giorni della tragicomica attesa per i risultati del voto indetto dai Cinque Stelle su Rousseau, tornano in mente le parole pronunciate un anno fa dalla Cartabia. «Anche la democrazia diretta ha bisogno della democrazia rappresentativa e dei leader. Le nuove forme sul web si combinano con un forte dirigismo dall’alto».
Piace molto a Matteo Renzi, riscuote consensi in ambienti berlusconiani, meno tra i Cinque Stelle. Ad aprile 2020, durante il primo lockdown, Cartabia usava queste parole nella relazione annuale della Consulta: «La Costituzione non contempla un diritto speciale per i tempi eccezionali, ma offre la bussola per ‘navigare’ nei tempi di crisi».
Apriti cielo. Le dichiarazioni della presidente vengono usate in Parlamento da Renzi, Forza Italia e Fratelli d’Italia per attaccare l’avvocato del Popolo che sfornava dpcm come confetti. Nel giro di poco tempo trapela lo stupore di Giuseppe Conte e l’irritazione dei Cinque Stelle: «Si scordi il Colle». Lei è costretta a puntualizzare: «Sono super partes, non scendo nell’agone politico». Da quel mondo è stata sempre a debita distanza.
Cartabia vanta un solido rapporto con Sergio Mattarella. Il suo è l’abito perfetto da donna delle istituzioni, la classica riserva della Repubblica. Dal 2018, ogni volta che viene evocato un governo di unità nazionale il suo nome è tra i primi della lista. Inserita quasi per inerzia in ogni totoministri che si rispetti, è entrata anche nella rosa dei candidati per il Quirinale.
«Si è rotto un vetro di cristallo, spero di fare da apripista», commentava nel 2019 da neopresidente della Corte Costituzionale. Un fiume di elogi dalla politica, interrotto dalle associazioni Lgbt: «La sua nomina mette a rischio i nostri diritti». Il riferimento era alle sue prese di posizione a favore della famiglia tradizionale. Tirarono in ballo anche le sue idee su aborto ed eutanasia raccolte negli scritti pubblicati sul Sussidiario, il quotidiano online della ciellina Fondazione per la Sussidiarietà.
Le polemiche sono tornate alla vigilia del suo incarico da Guardasigilli: «La Cartabia ha affermato che si deve differenziare la famiglia da altre forme di convivenza e non permettere il matrimonio omosessuale. Sarà in grado di tutelarci?», si chiede Fabrizio Marrazzo, portavoce del Partito Gay Lgbt+. Gli fa eco il senatore Partito democratico Tommaso Cerno: «Il premier chiarisca la posizione del governo sui diritti di uguaglianza tra i cittadini».
In attesa di capire che succederà a via Arenula, alla Corte Costituzionale la giudice cattolica si era occupata dei diritti delle minoranze. È stata relatrice di una sentenza che ha permesso alle madri di figli gravemente disabili la possibilità di scontare la pena ai domiciliari, a prescindere dall’età del figlio e dalla durata della pena.
La prof ha dato una svecchiata all’immagine della Consulta, portando i giudici in tour nelle carceri e poi nelle scuole. È stato creato un podcast per raccontare le attività della Corte, illustre sconosciuta per molti cittadini. Cartabia ha anche aperto le porte della Consulta alla società civile, stabilendo che associazioni di categoria, ong e soggetti istituzionali possano inviare un parere in casi che riguardano i loro ambiti. «Una presidenza innovativa», dice chi ha vissuto da vicino quel periodo.
La sua idea di legge è lontana anni luce da quella del predecessore. «La giustizia deve sempre esprimere un volto umano», E poi: «Non è detto che il carcere sia sempre la pena più appropriata». Altro che tintinnio di manette. Cartabia tiene alla funzione rieducativa della pena. Sulla prescrizione non si è espressa, anche se ha fatto capire come la pensa. «I processi troppo lunghi – spiegava a Repubblica – si tramutano in un anticipo di pena. Che il processo debba avere una ragionevole durata è un principio di civiltà giuridica esplicitato nella Costituzione».
La giustizia è stata tra le materie più sofferte per il Conte-ter. Difficile immaginare una pacificazione con una maggioranza così eterogenea. Più facile puntare a un compromesso, evitando i dossier divisivi. Per Draghi la priorità è la riforma della giustizia civile, uno dei nodi segnalati come causa degli scarsi investimenti esteri nel nostro Paese. Occuperà un posto chiave nel Recovery Plan. Tradotto in soldoni, bisognerà aumentare la produttività dei magistrati. Quali e quante resistenze incontrerà Cartabia? Poi ci sono le eredità di Bonafede: dalla prescrizione alla riforma del Csm, senza dimenticare il processo penale.
I critici sono pronti a sparare. Non ha mai messo piede in tribunale, non è un politico, non è magistrato né avvocato, nessun legame con quei mondi. Dicono. Le sabbie mobili del ministero fanno tremare chiunque. Un vecchio lupo di mare come Carlo Nordio, ex procuratore aggiunto a Venezia, sintetizza lo scenario: «Un ministro della Giustizia può fare molti danni in poco tempo, come ha fatto Bonafede, ma non può risolvere da solo molte situazioni».
Le perplessità arrivano a lambire una fonte a lei vicinissima: «Chi glielo fa fare? È giovane e con un curriculum di alto livello, sono pochi i presidenti emeriti della Consulta ad avere tanti anni di carriera davanti. In un ministero così politico ha tutto da perdere, anche perché tra un anno si elegge il Capo dello Stato…». E il nome di Cartabia, si sa, è uno dei più “quirinabili”. Il sospetto, sussurrano, è che Draghi l’abbia voluta in squadra anche per evitare una potenziale concorrente al Colle. Ma questa è un’altra musica.