Siamo ancora in tempoCome una nuova economia può salvare il pianeta

Secondo lo scrittore e antropologo Jason Hickel per vincere la crisi ambientale bisognerebbe riabilitare il rapporto dell'uomo con la natura riducendo lo spreco di risorse, da ridistribuire equamente, e producendo beni durevoli e necessari, «spegnendo le sirene della pubblicità»

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Gli ecosistemi sono reti complesse. Sotto pressione, possono essere incredibilmente resilienti, ma quando alcuni nodi essenziali iniziano a cedere, le conseguenze si ripercuotono sull’intera rete della vita. È così che si sono verificate le grandi estinzioni di massa del passato.

A provocare questi eventi non sono gli shock esterni, il meteorite o il vulcano: sono i collassi interni che li seguono a cascata. Può essere difficile prevedere l’esito di questi accadimenti. Cose come i punti di non ritorno e i cicli di retroazione rendono tutto molto più pericoloso di quanto potrebbe essere altrimenti. Proprio per questo la crisi climatica è tanto preoccupante.

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Alcuni scienziati temono che potremmo non essere in grado di arrestare l’aumento della temperatura a due gradi, come previsto dall’accordo di Parigi. Un incremento di due gradi potrebbe scatenare eventi a cascata che a loro volta potrebbero sfuggire al controllo e spingere la Terra in una «condizione di serra» permanente. Le temperature potrebbero salire ben al di sopra della soglia stabilita e noi non avremmo alcuna possibilità di impedirlo. Alla luce di questi rischi, la sola risposta razionale è fare tutto il possibile per mantenere il riscaldamento entro 1,5° C. E questo significa azzerare le emissioni globali in modo molto, molto più rapido di quanto chiunque attualmente preveda

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C’è qualcosa nella crisi ecologica che sembra spingerci verso nuovi modi di pensare (o meglio indirizzarci verso modi più antichi di pensare) alla nostra relazione con il mondo più che umano.

Questo ci porta dritti al centro del problema. Ci indica un modo per cominciare a comporre la frattura che ha dato origine alla crisi attuale. Ci offre la possibilità di immaginare un futuro più ricco e più fertile: un futuro libero dai vecchi dogmi del capitalismo e radicato invece nella reciprocità con il mondo vivente.

La crisi ecologica richiede una risposta politica radicale. Dobbiamo fare in modo che i Paesi ad alto reddito riducano il loro impiego eccessivo di energia e materiali, dobbiamo compiere una rapida transizione verso le rinnovabili, dobbiamo passare a un’economia postcapitalista incentrata sul benessere umano e la stabilità ecologica invece che sulla crescita perpetua.

Ma non basta: dobbiamo anche pensare in modo nuovo alla nostra relazione con il mondo vivente. Come possiamo fare tutte queste cose insieme? Quando ho iniziato a scrivere questo libro, mi infastidiva l’idea di usare la decrescita come quadro di riferimento principale. In fondo, è soltanto un primo passo. Ma ripensando al viaggio che abbiamo compiuto fin qui, mi domando se non sia anche qualcosa di più.

Decrescita significa decolonizzazione, sia delle terre sia delle persone sia delle nostre menti. Significa derecinzione dei beni comuni, demercificazione dei beni pubblici e deintensificazione del lavoro e della vita. Significa decosificazione degli esseri umani e della natura e de‑escalation della crisi ecologica.

La decrescita inizia come un processo basato sul prendere di meno. Ma alla fine spalanca enormi finestre di possibilità. Ci porta dalla scarsità all’abbondanza, dall’estrazione alla rigenerazione, dal predominio alla reciprocità e dalla solitudine e l’isolamento alla connessione con un mondo che pulsa di vita.

Alla fine, quella che definiamo l’«economia» è la nostra relazione concreta con gli altri esseri umani e con il resto del mondo vivente. La domanda che dobbiamo porci è: come vogliamo che sia questa relazione? Vogliamo che sia fondata sul dominio e sull’estrazione? Oppure vogliamo che sia fondata sulla reciprocità e sulla cura?

Fuori dalla finestra della stanza in cui scrivo, a Londra, c’è un albero. È un enorme castagno che si innalza sicuro dal terreno e protende i suoi rami generosi verso l’alto per quasi cinque piani. La specie esiste da circa ottanta milioni di anni, sopravvissuta in qualche modo all’ultima estinzione di massa.

Questo albero, in particolare, ha cinquecento anni ed è uno degli ultimi esemplari rimasti di un’antica foresta andata distrutta tantissimo tempo fa. È rimasto a testimoniare tutta la storia che vi ho raccontato in queste pagine. Era già lì prima dell’inizio del periodo delle enclosures, quando la terra dalla quale le sue radici traggono sostentamento era ancora un bene comune libero da atti o titoli di proprietà.

È rimasto lì, una stagione dopo l’altra, mentre le emissioni industriali si riversavano nell’aria. Ha sentito la temperatura aumentare e ha visto gli insetti e gli uccelli che vivono tra le sue fronde scomparire lentamente. Spesso mi chiedo che cosa vedrà questo gigante silenzioso nei decenni e nei secoli che verranno, durante la nostra vita e la vita delle generazioni che verranno.

Come si evolverà il resto della storia? Abbiamo la possibilità di scrivere un futuro diverso, se riusciremo a trovare il coraggio per farlo. Abbiamo tutto da perdere e un mondo da guadagnare.

Jason Hickel, Siamo ancora in tempo!, Il Saggiatore, pp. 288, 23 euro

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