Sanremo day 3Com’è profondo il poeta Coletta e altre strazianti cover

Le perle di saggezza del direttore Rai e il rifacimento dei capolavori della canzone italiana, con sofferenza

LaPresse

Bisogna che tutto cambi perché tutto resti uguale, dice il romanzo più citato da quelli che hanno visto il film. Film o romanzo o pagina di citazionichetifarannosembrarestudiato punto it che sia, è comunque la linea guida degli incarichi direttivi della Rai. E la chiave in cui leggere gli «in Rai c’è aria di nomine» che cominciavano a girare ieri, quando la moderatrice della conferenza stampa (cioè: del più avvincente tra i Sanremo, quello della mattina) ha chiosato un monologo del direttore di Rai 1 con le parole «grazie all’ermeneutica del festival del direttore», serissima come solo coloro che sanno non solo che «ermeneutica» non ha bisogno di tono per essere una presa per il culo, ma anche che il direttore si sentirà seriamente lodato, e che se pure capisce che se lo sfotti pazienza, düra minga (o comunque si dica in romano). 

Il per ora direttore aveva, fin lì, infilato una collana di perle notevole persino per lui. 

Partendo da «chapeau», espressione preferita da chiunque voglia sembrare il concorrente più colto d’un qualche reality kitsch; passando per «nella seconda serata tradizionalmente c’è un declivio»; giurando che a lui la serata-declivio era piaciuta un sacco, «anche per il mio rapporto che ho con Ama, se avessi trovato delle maglie rotte sarei qui a dirlo» (maglie più rotte di quelle di questa sintassi? Bella anche l’immagine per la quale un buon rapporto prevede che tu vada in conferenza stampa a dire che il programma principale della rete che dirigi ti fa schifo); buttando lì un saggio di Freud, tanto ci vuol poco a épater i giornalisti delle pagine di spettacoli, e figuriamoci se obiettano quando gli dici «cos’è questo sentimento del perturbante, è un sentimento che è un po’ sostantivato dal tedesco». 

Poi ci sono i ritorni tematici, come per tutti i grandi oratori. Prima parlando della «eroica possibilità di far nascere nel deserto diciamo un fiore»; poi giurando che Amadeus (credo, ma forse era Freud) ha «fatto nascere un fiore nel deserto di ferite di ancora mancanza di ricrescite» (eh?); per poi rispondere piccato «Non mi viene molto da ridere» a chi gli chiedeva se quell’immagine del fiore deserto avrebbe fatto la fine delle primule di Arcuri, e precisando «era un’immagine un po’ toponomastica del deserto». Chissà cosa pensa voglia dire, «toponomastica». È direttore ma anche poeta ma anche personaggio di Luciano De Crescenzo. 

Ci sarebbe poi un «questo elemento dell’Ariston vuoto che è uno specchio congruo con quello che stiamo vivendo», e «io voglio vedere le cose per come le ho mangiate, bevute, con lo stesso significante» (si sarà confuso col cumino). A un certo punto ha anche fatto la sua battuta ricorrente sull’assenza di Fiorello, in genere preposto a sfottergli il lessico, e ha concluso serissimo: «Purtroppo nella vita ho studiato tanto». Strano che non abbia detto «per il mio rapporto che ho con la cultura». Rapporto che è uno specchio congruo con i Freud che sta leggendo. 

Ci vogliono decine e decine di minuti perché una eroica giornalista dica, al direttore sostenitore che a marzo 2021 ci siano un milione e quattrocentomila italiani in meno davanti ai televisori rispetto al febbraio 2020, che veramente il Corriere ha pubblicato dati secondo i quali il totale della platea televisiva è cresciuto – di poco, seimila persone in più, quindi un milione quattrocentoseimila in più rispetto alle stime direttoriali. E altre decine di minuti perché uno che trova più semplice chiedere un’autocertificazione che procurarsi delle fonti supplichi il per ora direttore di dirgli se i dati giusti siano i suoi o quelli del Corriere. 

Bisogna che tutto resti uguale perché tutto cambi: quello ripete la solita storia che a marzo saremmo meno che a febbraio (diventano un milione e tre in meno, ma ora non cavilliamo sugli spicci), e il giornalista ringrazia tantissimo per aver chiarito. Sembra l’incontro tra un giocatore di tre carte e un turista fesso. 

Bisogna che tutto resti uguale se non volete che vi prenda a coppini, dice la mia versione di Tomasi di Lampedusa, rivista da Mario Puzo. È un ordine che do al televisore da molti anni (da prima di diventare una vecchia matta che ritiene normale parlare col televisore), da quando a Sanremo hanno cominciato a fare una serata di cover. 

Le cover, credo d’averlo già scritto da queste parti, sono sempre e comunque un insulto. O non somigliano alla versione che squarciagolavamo da piccoli, o sono di canzoni che avevano senso solo cantate dall’autore (come diavolo vi viene in mente di rifare Dalla o Guccini, sembrate quei viventi che rifanno il fraseggio di Arbasino). 

Ieri sera il televisore ha iniziato a disubbidire subito, con una cover di 4/3/43 fatta dai Negramaro, aggravata poi da una specie di riscrittura recitata del testo di Com’è profondo il mare (io ora mi metto a riscrivere La bella di Lodi, che ci vorrà mai). 

E poi è andato avanti (il televisore) a straziarmi con un rifacimento di Cyrano, la canzone di Guccini di quando ero così giovane da pensare che la sinistra potesse governare (la cosa stupefacente è che quell’anno lo pensò la maggioranza del paese). 

Non è solo un problema di autori, anche di canzoni. Su Com’è profondo il mare m’innervosisco più che su 4/3/43; su Caruso non m’innervosisco per niente. Se aveste osato straziarmi Piazza grande, per la mia rabbia enorme vi sarebbero serviti giganti. Di Guccini pigliatevi pure Auschwitz (che oltretutto vi dà subito copertura culturale), ma lasciate stare i dischi della mia giovinezza. 

Ho sofferto tanto, finché ho capito che Il Gattopardo riscritto da Puzo era incarnato da Samuele Bersani. Che ha fatto quel che deve fare un autore che non sia disposto a farsi straziare una canzone: accompagnarla. Giudizi universali, il concorrente sanremese (di cui figurarsi se ho memorizzato il nome) l’ha cantata in duetto con Bersani, lì sul palco a badare alla sua creatura. Aveva avvisato già scrivendola, d’altra parte: «Potrei, ma non voglio, fidarmi di te». Il poeta Coletta non avrebbe saputo dirlo meglio.