Ieri, mentre Lodo Guenzi stava dentro una scatola per nove decimi dell’esibizione del suo gruppo sul palco di Sanremo, pensavo a Courtney Love. A un’intervistatrice che negli anni Novanta lamentava la costringessero a parlare anche con le altre Hole (il gruppo della Love) perché il tentativo promozionale era quello già fallito con Debbie Harry: Blondie non è una cantante, Blondie è una band.
Quindi ieri Lo stato sociale si esibiva, e a cantare era un altro rispetto a quella volta di Una vita in vacanza (canzone in un certo senso preveggente), un altro che non era Lodo, che nel frattempo ha fatto anche il giudice televisivo, è diventato il miglior utilizzatore di Instagram a scopo di rimorchio, e – quando ha annunciato che stavolta non avrebbe cantato lui, perché loro sono un gruppo – la vostra affezionatissima osservatrice aveva sospirato: oddio, un altro Debbie Harry.
Solo che ieri sul palco Lodo l’assente era chiaramente il Nanni Moretti che lo si nota di più se viene e si mette in un angolo, c’era un gigantesco scatolone, e nessuno si filava i poveri quattro altri che s’agitavano (s’agitavano così tanto che per quei tre minuti ho dimenticato la vuotezza della platea dell’Ariston), tutti fissavamo lo scatolone chiedendoci quando ne sarebbe uscito il biondino, il Debbie Harry che possiamo permetterci, la Courtney Love degli omeopatici, e a un certo punto il tapino che cantava ha pure detto «ma dov’è Lodo», tipo quelli che spiegano le barzellette.
E poi niente, Lodo è uscito dallo scatolone, la più parte della platea da divano s’è sentita intelligentissima (io l’avevo capito che era lì dentro, puntesclamativo), solo qualche ottimista è rimasto deluso: quelli che speravano tanto che, dallo scatolone, uscisse la vecchia che balla.
Ma tutto questo non era importante, perché a quel punto il vero festival era già andato in onda da dieci ore. Il vero festival è quello di mezzogiorno, quando RaiPlay apre la diretta dalla sala stampa: collegandosi con la stessa direttrice di RaiPlay, che ci spiega che Sanremo è l’evento più visto in streaming (ma tu pensa, credevo il programma di Nunzia De Girolamo); dando un microfono a un assessore sanremese che dice che lui non s’è mai divertito tanto quanto alla conferenza stampa precedente (porello, cinquantuno settimane a occuparsi dei rapporti tra pensionati e fioriere, e una di gloria); ma soprattutto facendo di Amadeus la Simone de Beauvoir che ci possiamo permettere.
Mai avrei detto che Amadeus potesse essere un faro di razionalità in questo mondo di crescente follia, poi è arrivato il maschio femminista. Il maschio femminista è un tizio del Secolo XIX, quotidiano ligure, che ogni mattina spiega alla sventurata di turno che lei non è abbastanza militante per le donne.
L’altroieri aveva preventivamente rinfacciato alla De Angelis la sua evidente volontà di non fare, sul palco dell’Ariston, nessun gesto rivoluzionario quanto quello compiuto a novembre: instagrammarsi coi brufoli. (Se la Thatcher, nata quando le donne inglesi non avevano diritto di voto, e vissuta con abbastanza tigna da arrivare non solo a votare ma a diventare la Thatcher, se la Thatcher avesse avuto idea di che futuro aspettava il pianeta, un futuro in cui instagrammarsi i brufoli è considerata militanza, forse avrebbe fatto la prima ballerina invece che il primo ministro).
Ieri, col tono della Cassandra che torna a ribadire le sue eroiche dolenze sebbene si sappia inascoltata da questi ingrati ignari, ha chiesto perentorio alla povera Elodie, valletta della seconda serata, se intendesse fare «qualcosa di molto bello, molto importante nei confronti di tutti i disagi che hanno le donne in Italia» (e fin qui pensavo: i parrucchieri chiusi al lunedì), «e non solo in Italia» (e allora ho capito: il mestruo).
Giacché, ha aggiunto indignato, «Matilda De Angelis, che fa tanto la ribelle all’estero, non se l’è sentita di farlo» (traduzione: a New York fa vedere le tette, a Sanremo neppure prende ordini dalle pagine locali). I poveri Amadeus ed Elodie, col tono che hanno i negoziatori dei film d’azione quando trattano coi terroristi picchiatelli, si sono messi lì a spiegargli che veramente «libertà femminile» significa fare un po’ quel che ti pare, non quello che ti ordina il cronista in collegamento, certo tu muoia dalla voglia di dimostrargli che stai dalla parte delle donne. La povera Elodie ha persino azzardato un «io parlo per me, non è riferito alle donne» che mi è parso dirompente, in questo tempo di militanza dal divano e autoscatti dei brufoli coi cancelletti giusti. Mi piace pensare che la risposta al cronista femminista sia Fiorello che, la sera sul palco, canta una finta canzone di Vasco Rossi in cui dice «criticare i lavori dell’Enel: siamo i più bravi».
Non è una questione personale col tizio ligure, eh: lui è il caso più grave, ma la smania di dolenza va di moda in sala stampa persino più di quanto si portino le rivendicazioni. Quello che invoca il ricordo del defunto (ovviamente già organizzato) così da potersi poi vantare sui social che il defunto amico dei conduttori sia stato ricordato perché gliel’ha chiesto lui, eroe del coccodrillo. Quelli che lodano il momento in cui si è parlato di Patrick Zaki e invocano altri momenti contenutisti – «col tema importante si vince sempre, ricattando il pubblico», diceva Nanni Moretti in un altro secolo.
A un certo punto il direttore di rete giustifica gli ascolti scarsini della prima serata dicendo, e trascrivo perché se sintetizzo sembra che inventi: «L’anno scorso il festival è andato in onda un mese prima, quando la platea complessiva era, diciamo, aveva un milione e quattrocento[mila] circa spettatori in più. Voi sapete che la densità della platea cambia, no?, non a caso diciamo nei mesi primaverili c’è meno platea».
Traduco: stava dicendo che in generale in primavera si esce di più la sera e si guarda meno tv rispetto all’inverno; sta dicendo che se un milione e mezzo di persone questo Sanremo neanche l’hanno acceso è perché erano in Darsena: si sa che nel marzo 2021 usciamo di più la sera rispetto al febbraio 2020.
Non uno dei giornalisti presenti gli ha chiesto se stesse scherzando, gli ha obiettato qualcosa, gli ha fatto notare la follia dell’analisi. Erano molto impegnati a pretendere dichiarazioni femministe, rivendicare che gli inviati Rai avessero più accesso ai cantanti di quelli dei giornali, protestare perché in sala stampa non c’è la macchinetta del caffè (nessuna domanda è stata inventata).
O a chiedere come mai ci siano così poche donne nelle classifiche musicali, e a sentirsi rispondere che noi donne dobbiamo essere più solidali. È stato allora, mentre Elodie non rispondeva l’ovvio, cioè «provate a scrivere alle cantanti una …E dimmi che non vuoi morire, una J’adore Venise, una Domani è un altro giorno, e poi a riformulare la domanda: le classifiche le fanno le canzoni, mica i gameti», che ho rivalutato Lodo Guenzi: mi chiuderei in uno scatolone anch’io, pur di non farmi fare domande così stracche.