Vino al metanoloTrentacinque anni di uno scandalo ancora impunito

Torna oggi alla ribalta, sugli schermi di Raiplay il racconto di un caso di cronaca scoppiato negli anni Ottanta, che segnò profondamente le scelte di consumo degli italiani e cambiò tecniche e regolamentazioni del settore enologico

17 marzo 1986, Valeria Zardini, sessant’anni, viene ricoverata all’ospedale Sacco di Milano in preda a vomito, diarrea, forti dolori intestinali, senso di vertigine, e pian piano perde conoscenza. «Mi dicono che mia mamma è stata avvelenata. Ma da cosa?»: il racconto di Roberto Ferlicca, suo figlio nonché Presidente dell’associazione Vittime del Metanolo, scandisce la nuova puntata di Ossi di seppia – Il rumore della memoria, dedicata allo scandalo del vino al metanolo che travolse l’Italia nella primavera di trentacinque anni fa.

Il format, ideato e prodotto da 42° Parallelo in esclusiva per RaiPlay – piattaforma online gratuita del servizio pubblico Rai – prevede il rilascio ogni martedì dal 12 gennaio di un episodio di circa venti minuti che ripercorre la storia italiana più recente. La memoria di ieri viene così recuperata attraverso le immagini delle Teche Rai e le fotografie d’archivio e i suoi fili riannodati e riconnessi all’oggi grazie al racconto di testimoni d’eccezione, protagonisti all’epoca dei fatti.

La narrazione di Roberto Ferlicca passa in rassegna i tragici eventi che definirono una truffa mortale: l’aggiunta di alcol metilico al Barbera per aumentarne la gradazione: ventitré le vittime, unitamente a decine di persone che dopo aver bevuto quel vino diventarono cieche, paralizzate o riportarono gravi danni neurologici. Inclusa la madre di Ferlicca, scomparsa poi a settantadue anni, dopo dodici di cecità totale: «Quando mi sono svegliata, ho visto le ombre», sussurra disperata in un’intervista rilasciata al termine del ricovero.

Le indagini ricostruirono rapidamente l’accaduto: le vittime – per la maggior parte residenti in Lombardia, Piemonte e Liguria – avevano bevuto vino proveniente e prodotto dalle cantine dell’azienda vinicola Ciravegna di Narzole, in provincia di Cuneo. I titolari, Giovanni e Daniele Ciravegna, padre e figlio, avevano aggiunto dosi elevatissime di metanolo per alzare la gradazione alcolica, ignorandone volutamente la tossicità per l’organismo. «Volevano che sembrasse vino, e invece era solo veleno», ricorda Roberto Ferlicca.

Roberto Ferlicca

Il metanolo è un prodotto intrinseco della fermentazione dell’uva, e quantità esigue sono considerate legali dalla legislazione italiana se inferiori a 350 milligrammi/litro per i vini rossi e a 250  milligrammi/litro per i vini bianchi e rosati. Una dose eccessiva può rivelarsi letale come nel caso del vino dei prodotto dai Ciravegna, imbottigliato e successivamente commercializzato dalla ditta Vincenzo Odore di Incisa Scapaccino, in provincia di Asti. Dalla metà del dicembre 1985 al marzo 1986 fu impiegata una quantità di metanolo di circa due tonnellate e mezzo per una ragione piuttosto semplice: aumentare la gradazione del vino. Il metanolo era un elemento più a buon mercato dello zucchero in quanto, all’epoca, sgravato dall’imposta di fabbricazione.

Nel marzo 1986, dopo i primi tre decessi, dalla procura partirono comunicazioni giudiziarie per le ipotesi di concorso in omicidio colposo plurimo e lesioni colpose, violazione delle norme riguardanti la repressione delle frodi nella preparazione dei mosti dei vini e degli aceti. Gli inquirenti scoprirono che numerose aziende vinicole vendevano del “vino” prodotto con miscele di liquidi e alcol metilico di sintesi: in tutto quelle coinvolte furono circa una sessantina secondo le indagini coordinate dalla Procura di Milano, che in capo a cinque settimane fece piena luce sullo scandalo. L’inchiesta ovviamente ebbe pesanti ripercussioni sul mercato del vino: solo l’anno prima l’export italiano era cresciuto del 17% in quantità e del 20% in valore; il 1986 invece si chiuse con una contrazione del 37% degli ettolitri e la perdita di un quarto del valore incassato l’anno prima.

Le aziende ufficialmente inquisite a seguito dello scandalo furono: la Ditta Odore Vincenzo di Incisa Scapaccino (Asti); la Ditta Ciravegna Giovanni di Narzole (Cuneo); la Ditta Fusco Antonio di Manduria (Taranto); la Ditta Giovannini Aldo di Quincinetto (Torino); la Ditta Baroncini Angelo di Solarolo (Ravenna); le Industrie Enologiche Bernardi Primo S.n.c. di Mezzano Inferiore (Parma); la Ditta Piancastelli Roberto di Riolo Terme (Ravenna). Furono inoltre interessate dalle sofisticazioni tre province della Toscana: Firenze, Pisa e Lucca.

Nel 1992 si concluse il processo di primo grado presso la prima sezione della Corte d’Assise di Milano, con condanne sino a sedici anni di reclusione: in particolare, Giovanni e Daniele Ciravegna, i due principali imputati, vennero condannati rispettivamente a quattordici e quattro anni di carcere. Giovanni Ciravegna, dopo essere tornato in libertà nel 2001 sfruttando alcuni cavilli legali, tornò a dedicarsi alla produzione di vino (con un altro nome) nella sua casa nelle Langhe fino al decesso, avvenuto nel 2013, mentre il figlio Daniele decise di cambiare settore e si occupò di compravendita di trattori a Dogliani.

Secondo la sentenza gli imputati, in particolare i Ciravegna, avrebbero inoltre dovuto pagare pesantissime sanzioni pecuniarie, pari a un miliardo delle vecchie lire: dichiarandosi però sempre ufficialmente “nullatenenti”, riuscirono a evitare il pagamento di qualsiasi somma per i risarcimenti. L’associazione Vittime del Metanolo si batte ancora oggi per veder riconosciuto il diritto a indennizzi per le famiglie colpite: nonostante le interrogazioni parlamentari e diverse iniziative in merito, ad anni di distanza nulla è stato riconosciuto, e Giovanni Ciravegna sino alla fine si è giustificato adducendo al fatto che «sono stato il più danneggiato di tutti».

Se proprio ci dobbiamo sforzare di trovare un risvolto positivo in tutta la faccenda, lo scandalo segnò in un certo senso la rinascita del vino in Italia. Proprio per uscire da quel buco nero, la Camera di Commercio di Asti lanciò l’idea di applicare la DOCG, ossia la denominazione di origine controllata e garantita, per tutti i vini, compresi quelli regionali, una scelta che favorì il rilancio del settore nella sua interezza. Ma pure alla luce di questa innegabile conseguenza favorevole, resta l’amara sensazione che la faccenda resti tuttora e per buona parte impunita: non si tratta nemmeno più d’ottenere un risarcimento economico, spiega Roberto Ferlicca, quanto, piuttosto, di un risarcimento morale.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter