Poche volte un evento diplomatico ha avuto una così nitida caratura geopolitica. L’incontro di metà marzo ad Ankara tra il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan e i tre i rappresentanti della presidenza tripartita che governa la Bosnia Erzegocina – il bosgnacco Šefik Džaferović, il croato Željko Komšić e il serbo Milorad Dodik – ha seguito azione per azione il manuale dello stratega perfetto.
Innanzitutto, Erdoğan si è assicurato la costruzione del tratto dell’autostrada Sarajevo-Belgrado che correrà su suolo bosniaco. Anche la costruzione del tratto in Serbia è gestito da un’azienda turca, finanziato in parte dallo Stato serbo, in parte dalla turca Exim Bank.
Alla conferenza stampa Dodik e Erdoğan hanno celebrato l’accordo con toni festosi. «L’autostrada sarà il più grande progetto infrastrutturale della Bosnia. Non avrebbe mai potuto accadere senza il supporto del presidente Erdoğan», ha dichiarato Dodik.
Non sono stati, tuttavia, forniti dettagli riguardo a come verrà finanziata questa grande opera (costo stimato: tre miliardi di euro). Ciò che è certo, però, è che i soldi arriveranno dalla Turchia: o tramite un prestito a condizioni vantaggiose per Sarajevo o tramite una concessione per l’azienda costruttrice, che le permetta in seguito di riscuotere i pedaggi incassando anche delle sovvenzioni dallo Stato bosniaco.
Comunque vada, il sottotesto è chiaro: l’autostrada Sarajevo-Belgrado sarà un’autostrada turca.
L’infrastruttura è ritenuta una delle principali tra quelle che dovrebbero incrementare la connettività e l’integrazione dei Balcani occidentali. Al momento il viaggio in auto tra le due capitali dura almeno cinque ore, una media di circa 55 km/h. Finora, tuttavia, il progetto è rimasto in stallo, in quanto le due entità amministrative della Bosnia, la Repubblica serba e la Federazione croato-musulmana, non erano riuscite ad accordarsi sul percorso.
L’uomo forte di Ankara ha messo tutti d’accordo. Confermando che oggi l’influenza della Turchia non è più circoscritta alle popolazioni bosgnacche e musulmane, come vorrebbe la vulgata tradizionale, ma è molto presente anche in Serbia – e quindi in Repubblica serba.
Archiviato il capitolo infrastrutture, Erdoğan ha piazzato un secondo colpo, avventurandosi in uno dei campi che oggi va per la maggiore tra gli influencer geopolitici: i vaccini.
Il governo turco si è impegnato a consegnare 30 mila dosi di vaccino al partner balcanico, che finora si è dimostrato molto carente per quanto riguarda l’importazione del farmaco più richiesto del momento. A oggi in tutta la Bosnia ci sono solo 50 mila dosi: le 40 mila di Sputnik V che ha recuperato la Repubblica serba e le 10 mila di AstraZeneca che la Serbia ha magnanimamente elargito alla Federazione croato-musulmana.
Numeri poco incoraggianti a fronte dell’emergenza che sta vivendo il paese: Sarajevo è la nuova Bergamo. L’epidemia è fuori controllo anche perché chi dovrebbe provare a controllarla – le amministrazioni cantonali, regionali e statali – non pare avere le intenzioni o i mezzi per cimentarsi in questa impresa.
Una seconda mossa che probabilmente aumenterà la popolarità del presidente turco è stata la sigla di un’intesa per il mutuo riconoscimento delle patenti di guida. Un provvedimento che sulla carta mira a potenziare l’integrazione del sistema dei trasporti dell’Europa sudorientale, ma che avrà verosimilmente come primo effetto concreto quello di stimolare ulteriormente la migrazione di cittadini bosniaci in Turchia, dove possono trovare occasioni di lavoro non pervenute in patria. La Bosnia ha il tasso di disoccupazione più alto del Vecchio continente, dopo il Kosovo: tra i bosniaci di età compresa tra i 20 e i 64 anni circa il 40% degli uomini e poco meno del 65% delle donne sono disoccupati, secondo l’Eurostat (dati riferiti al 2018).
Dulcis in fundo, il sultano ha anche rispolverato un po’ di grandeur post-ottomana, sbilanciandosi con un paio di promesse ambiziose.
La prima: portare lo scambio commerciale Turchia-Bosnia al volume di un miliardo di euro “in breve” – al momento è di circa 650 milioni, secondo la presidenza turca.
La seconda, ancora più grandiosa: accreditarsi come facilitatore per la risoluzione delle varie dispute bilaterali in cui è impantanata la Bosnia, inaugurando due format (Turchia-Bosnia-Croazia e Turchia-Bosnia-Serbia), dove risolvere le controversie. Fedele al suo ruolo di putiniano di ferro, Dodik ha aggiunto che nel secondo format dovrebbe essere invitata anche la Russia.
Anche ammesso che questi due consessi si materializzino davvero, la Turchia non sembra avere gli strumenti per armonizzare le ancora tese relazioni tra le tre repubbliche post-jugoslave.
Ma il soft power di un attore passa tanto anche per l’immagine di sé che riesce a proiettare, anche di fronte allo specchio.