«Sono profondamente preoccupato per le minacce che la Grande Barriera Corallina deve affrontare. Se non cambiamo i nostri comportamenti, le cose non miglioreranno». A dirlo non è un esponente della politica australiana o uno scienziato ma Virginijus Sinkevičius, commissario europeo all’ambiente, che ha dichiarato al Guardian Australia di avere molto a cuore la salute di uno dei simboli più iconici del Paese dei canguri, dichiarato patrimonio dell’Umanità nel 1981.
Un monito che non arriva in un momento casuale, visto che lo scorso febbraio l’Unione ha fatto il suo ingresso nell’International Coral Reef Initiative, l’accordo internazionale promosso per primo dall’Australia e da altri otto Paesi nel 1994 che mira a proteggere le barriere coralline e gli ecosistemi correlati.
Il più grande è certamente quello legato alla salute della Grande Barriera Corallina, che occupa un’area di 348 mila chilometri quadrati, grande più o meno quanto la Germania, e ha una lunghezza di 2300 chilometri, esattamente quanto dista Milano da Mosca.
Da essa dipendono 275 milioni di persone, tra pesca e turismo, e ha un peso sull’economia australiana di 6,4 miliardi di dollari. «È forse la barriera più conosciuta in Europa, per questo anche nel Continente guardiamo molto a quello che succede in Australia», ha dichiarato Sinkevičius.
Il commissario però ha anche evidenziato che il rapido degrado di questi meravigliosi ed essenziali mondi sottomarini ricorda a tutti la forte pressione che l’attività umana sta esercitando sul pianeta e sugli oceani. Un fenomeno che purtroppo si nota anche in Australia, dove il dramma dello sbiancamento dei coralli è sempre più frequente ed è legato a situazioni di stress ambientale, come l’aumento della temperatura. A causa di questi fenomeni i coralli espellono infatti le alghe unicellulari (zooxanthellae) che vivono nei loro tessuti, e che sono responsabili dei loro colori brillanti.
Queste alghe sono però fondamentali per la sopravvivenza dei coralli, perché forniscono a questi animali il 90% del fabbisogno energetico richiesto per la calcificazione, la crescita e la riproduzione, e così facendo si condannano all’autodistruzione.
Negli ultimi 5 anni la Grande Barriera Corallina ha subito ben 3 sbiancamenti, nel 2016, nel 2017 e nel 2020, uno più grave dell’altro, e per questo l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura, l’organo consultivo ufficiale sulla natura dell’Unesco, ha certificato nel 2020 il passaggio delle prospettive di conservazione per la Grande Barriera Corallina da “preoccupazione significativa” a “critica”. La ragione è presto detta: nel 2016, il 93% dei coralli della Grande Barriera Corallina è stato soggetto a sbiancamento e il 22% è poi morto. Le aree più colpite hanno visto un picco dei coralli morti che ha raggiunto percentuali tra il 50% e il 90%.
Per i ricercatori le barriere più duramente colpite da questi fenomeni avranno bisogno di 10 o 15 anni per rigenerarsi, ma studi più recenti indicano una capacità di recupero sempre più lenta. Dopo lo sbiancamento del 2017 è stata registrata una riduzione fino al 89% nella crescita di nuovi coralli e a essere più colpiti sono soprattutto quelli più vicini alla costa: un quarto di tutta la Grande Barriera Corallina sarebbe colpito da fenomeni così severi che si ipotizza che in tali aree più del 60% dei coralli sia sbiancato.
Da tempo la politica si è mossa per cercare di tutelarli quanto più possibile. «Il Green Deal europeo si è posto l’obiettivo della neutralità carbonica entro il 2050, e sono felice che altri Paesi, come la Cina e gli Stati Uniti, si stiano impegnando per raggiungere l’obiettivo», ha dichiarato Sinkevičius. Un impegno che sta cercando di assumere anche il governo conservatore di Scott Morrison, attualmente al potere a Canberra. Il premier australiano sta però incontrando parecchie difficoltà, legate soprattutto alla resistenza degli alleati del Partito Nazionale.
Secondo David Littleproud, ministro dell’agricoltura e vice leader del partito, «gli australiani sono stufi di luoghi comuni e politici che parlano di grandi aspirazioni impossibili da raggiungere». Il ministro delle risorse, Keith Pitt, ha affermato che «le nostre fonti di energia, in primis il carbone, sono una pietra angolare della nostra economia. Questo settore non sembra affatto in declino visto che ha raggiunto una piena occupazione come non si vedeva da anni».
Eppure, basterebbe poco, anche dentro il governo australiano, per aiutare maggiormente la Grande Barriera Corallina. Lo dimostrano gli investimenti del precedente governo federale, guidato da Malcom Turnbull, e dalla regione del Queensland che hanno speso nel complesso più di un miliardo di dollari per tutelare un patrimonio essenziale per l’Australia e i Paesi circostanti e capace di eliminare ogni anno 83 milioni di tonnellate di carbonio ogni anno. La prova è data dalla relazione sulla qualità dell’acqua della barriera corallina, pubblicata lo scorso febbraio sui dati registrati nell’anno 2019, che sostiene ci sia stato un piccolo miglioramento della salute dell’acqua rispetto agli anni precedenti, mentre non si intravedono buone notizie per quanto riguarda lo stato dei coralli e delle praterie di fanerogame nelle zone costiere. I funzionari hanno perciò assegnato alle condizioni dell’ambiente marino un giudizio “D”, un risultato decisamente migliore rispetto a quello del 2017 e del 2018.
In questo contesto l’Europa non sta a guardare. Uno degli impegni più importanti, citato anche da Sinkevičius, è un progetto congiunto tra Europa e Australia della durata di tre anni e dal costo di 280 milioni di euro che impegnerà l’Istituto di ricerca per lo Sviluppo francese e l’Australian Institute of Marine Science ad esaminare la risposta genetica dei coralli al riscaldamento degli oceani.
Un impegno sui cui si concentra anche il Pledge for Nature, un documento internazionale a cui aderiscono 84 Paesi e organizzazioni, tra cui l’Unione europea, che chiede una ripresa green dalla crisi economica legata all’epidemia di Covid-19 e una volontà politica più forte di agire contro «la perdita di biodiversità e il degrado dell’ecosistema legato al cambiamento climatico».
«Ci piacerebbe che l’Australia vi partecipasse, così come alla High Ambition Coalition, una coalizione di oltre 50 Paesi che si è impegnata a proteggere quasi un terzo del pianeta entro il 2030 per fermare la distruzione del mondo naturale e rallentare l’estinzione della fauna selvatica», ha dichiarato Sinkevičius.
La vera battaglia sarà però in occasione della Cop15. Infatti, a fine anno a Kunming, in Cina, si terrà la Conferenza sui cambiamenti climatici e l’obiettivo dell’Unione «sarebbe quello di chiedere obiettivi chiari e scadenze ben definite. L’ideale sarebbe contenere l’innalzamento climatico a 1,5°C per evitare danni troppo marcati al nostro ecosistema», ha sottolineato il commissario europeo all’ambiente.
Basterà? Secondo il rapporto “Projections of Future Coral Bleaching Conditions” stilato dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, ci sono due possibili scenari sul futuro dei coralli. Nel primo, il più fosco, dove l’economia mondiale è ancora guidata dai combustibili fossili, tutte le barriere coralline del mondo sbiancheranno entro la fine del secolo, con uno sbiancamento grave annuale che si verificherà in media entro il 2034, nove anni prima di quanto pronosticato appena tre anni fa.
Un vero e proprio punto di non ritorno per tutte le barriere coralline, poiché comprometterebbe la loro capacità di fornire una serie di servizi ecosistemici all’intero mondo marino. Nel secondo caso, una sorta di “via di mezzo” in cui i Paesi raggiungono i loro impegni attuali di limitare le emissioni di carbonio del 50%, lo sbiancamento grave potrebbe essere ritardato di undici anni, fino al 2045. Secondo l’autore principale del rapporto, Ruben van Hooidonk, «dobbiamo assolutamente cercare di ridurre le nostre emissioni di carbonio e dobbiamo farlo in modo ancora più urgente di quanto pensavamo se vogliamo tutelare l’ecosistema marino».
Il programma stima infatti che ogni quarto di grado di adattamento dei coralli alla temperatura che cresce porta a un possibile ritardo di sette anni nello sbiancamento annuale previsto: se l’umanità però tiene il passo con le sue attuali emissioni di gas serra, i coralli non sopravviveranno nemmeno con 2 gradi Celsius di adattamento. «Dobbiamo ridurre le nostre emissioni per guadagnare tempo e cercare di mantenerli in vita», ha dichiarato Van Hooidonk.