L’ingrediente segretoIl luppolo

Ritenuto compagno inseparabile della birra, in realtà l’Humulus lupulus venne aggiunto alla ricetta di questa bevanda solo parecchi anni dopo la sua diffusione, ma i suoi effetti furono dirompenti e lo sono ancora oggi per Eugenio Pellicciari e la sua Italian Hops Company

Marano sul Panaro è un paese di poco più di 5000 abitanti situato sulla sponda sinistra del fiume Panaro, l’ultimo affluente del Po. Nel 1876 questo villaggio appoggiato sulle colline della provincia modenese e famoso, come la vicina Vignola, per la produzione di ciliegie, divenne noto a livello internazionale perché il luppolo da birra lì coltivato ricevette una menzione d’onore all’esposizione di Hagenau, in Alsazia.

A differenza del malto d’orzo, che abbiamo incontrato nella scorsa puntata di questo nostro viaggio tra gli ingredienti della birra, il luppolo non accompagna questa bevanda sin dalle sue origini. Per diversi secoli, e con certezza almeno fino al XV e XVI, la birra prodotta nell’Europa continentale era infatti aromatizzata con il gruit: una miscela di erbe spontanee, radici, fiori, resine e cortecce. Si trattava di una combinazione che cambiava a seconda dei territori, ma che era quasi sempre composta da almeno tre specie botaniche: l’achillea millefoglie, il rosmarino selvatico e una varietà di mirto, detto del Brabante, ma più diffusamente conosciuto con il nome di myryca gale. Talvolta, pare che tra gli ingredienti del gruit comparissero anche piante allucinogene o eccitanti che rendevano la birra particolarmente utile per la riuscita di alcuni rituali religiosi. L’impiego di gruit nella produzione di birra era così significativo che in quella che oggi è la Germania, nel X secolo venne istituito il gruitrecht, una norma che regolava la raccolta e la vendita di questo miscuglio e ne concedeva il diritto solo ad alcuni cittadini.

A metà del XII secolo, però le cose iniziarono a cambiare e il luppolo iniziò ad acquisire un’importanza sempre più rilevante. Nel suo Physica natura la monaca tedesca Hildegard von Bingen scriveva: “Il suo gusto amaro (…), quando aggiunto alle bevande, previene in queste ultime la putrefazione e conferisce loro una durata più lunga“. Hildegard è una tra le figure più affascinanti del Medioevo. La si trova coinvolta in diverse vicende e i suoi lasciti in ambito artistico, musicale, religioso e storico sono innumerevoli (se volete scoprire la sua storia potete ascoltare la puntata del podcast Bestiario politico a lei dedicata). Quella breve frase dedicata al luppolo, seppur semplice, ebbe conseguenze dirompenti. Per la prima volta, infatti, si sottolineava come aggiungere una particolare specie vegetale alla propria birra non avesse conseguenze solo in termini aromatici ma anche conservativi. Ciò che la badessa di Bingen aveva probabilmente osservato, ma non poteva sapere, è che il luppolo è un efficace antibatterico e antiossidante e proprio per queste sue caratteristiche sarà a lungo utilizzato dai birrai. Prima che venissero inventati i frigoriferi, infatti, una delle principali preoccupazioni dei produttori di birra era quella di conservarla il più a lungo possibile senza che la qualità ne risentisse. Il luppolo in questo compito è stato per i birrai di grande aiuto.

L’Humulus lupulus, il luppolo appunto, è una pianta rampicante appartenente alla famiglia delle Cannabaceae. Per la produzione di birra vengono impiegate le infiorescenze femminili della pianta, conosciute anche come coni. Al loro interno è contenuta una resina giallastra che contiene le sostanze necessarie al birraio: gli alfa acidi, responsabili delle sensazioni amare, e gli oli essenziali, portatori di aromi diversi a seconda della varietà. Nel processo produttivo l’utilizzo più comune del luppolo è durante la bollitura del mosto di birra: dopo che il malto d’orzo viene messo in ammollo in acqua calda per estrarne zuccheri, sostanze aromatiche e coloranti, il liquido ottenuto viene fatto bollire e a questo punto si aggiunge il luppolo; le fasi di inserimento classiche sono due: a metà bollitura per estrarre le note amare e a fine bollitura per le sensazioni aromatiche.

Il luppolo è spontaneamente presente nelle nostre campagne e proprio in questa stagione i suoi germogli, che si chiamano luvertin, luertis, bruscandoli… a seconda della regione nella quale ci si trova, diventano l’ingrediente principe di frittate e risotti. Eppure la sua coltivazione è stata a lungo guardata con sospetto quando non del tutto ostacolata, come avvenne durante il periodo fascista.

Nel 2011, però, la curiosità di un giovane che non capiva perché fossero così diffuse le convinzioni che il luppolo da noi non potesse dare risultati interessanti e che avesse note di aglio e cipolla, cambiò di nuovo il corso delle cose. Eugenio Pellicciari era uno studente dell’Università di Scienze Gastronomiche di Parma quando decise di occuparsi di luppolo e di concentrare i suoi studi sulla selezione di varietà selvatiche autoctone da addomesticare allo scopo di immetterle nel ciclo produttivo della birra e più in generale sulle potenzialità della coltivazione in Italia anche di varietà internazionali. Per i suoi primi campi sperimentali Eugenio scelse proprio Marano sul Panaro, luogo che non ha caratteristiche particolarmente diverse dal resto della nazione, ma certamente ha un legame solidissimo con questa pianta. «L’Italia tutta ha condizioni pedoclimatiche molto adatte alla coltivazione del luppolo» mi racconta, «il fatto che non sia un’attività abituale è più che altro figlio della nostra storia e della nostra cultura».

Oggi con la sua Italian Hops Company, nata nel 2014, Eugenio gestisce oltre 20 ettari coltivati con circa 15 varietà internazionali a fianco delle prime tre autoctone italiane Æmilia, Modna e Futura presentate ne 2017. «Si tratta di tre genotipi con un quantitativo di alfa acidi (le sostanze responsabili delle note amare) piuttosto basso» mi spiega Eugenio «e un bel bouquet aromatico intensamente floreale probabilmente dovuto alla presenza significativa di un composto aromatico, il selinene, che nelle varietà internazionali si trova solo in tracce e che potrebbe dare un’identità molto precisa ai luppoli italiani».

Italian Hops Company lavora con oltre 150 realtà italiane: «collaboriamo con moltissimi birrifici artigianali che da noi acquistano sia luppolo che importiamo da alcuni coltivatori stranieri sia luppolo nostro trasformato in pellet (che significa essiccato e compresso in piccole pastiglie, la forma più classica in cui viene impiegato dai birrifici), essiccato o fresco. Proprio quest’ultima è la forma più curiosa ed esplosiva a livello aromatico: ci accordiamo con i birrifici che ritirano da noi i coni e li impiegano dopo poche ore nelle loro birre». Proprio a questa categoria appartiene la Fresh Hop del birrificio milanese Lambrate, una session Ipa – India pale ale dal basso tenore alcolico – che impiega luppolo Lotus fresco coltivato proprio da Italian hops company. Ma le collaborazioni di Eugenio hanno varcato anche i confini nazionali e così lo scorso anno il birrificio tedesco Nittenau ha prodotto la sua pils, Back to the hops, utilizzando le italiane Æmilia e Futura. Un piccolo passo per la birra forse ma un grande passo per la nostra nazione, che dopo essersi imposta nel mondo grazie al movimento artigianale, oggi dimostra di essere sempre più interessante anche sul fronte delle materie prime.

Dopo 25 anni di storia, per la birra italiana, il meglio, probabilmente, deve ancora arrivare.

X