Propaganda e realtàBrexit, pandemia e tagli al budget rallentano i sogni inglesi di una Global Britain

Il premier inglese ha promesso i più grandi investimenti militari «degli ultimi trent’anni» ma per ora ha ridotto di due terzi i fondi del Foreign Aid. Inoltre l’esercito britannico perderà 9500 effettivi nei prossimi anni e sarà dismesso un terzo dei carri armati

LaPresse

La Global Britain parte in salita. Il rilancio internazionale è il risarcimento promesso dai conservatori per i disagi economici e sociali causati dalla Brexit, ma il governo ridurrà di due terzi i fondi che ricadono sotto il Foreign Aid, cioè le spese afferenti alla politica estera per i programmi nel mondo. Al tempo stesso, però, Downing Street sta progettando il riarmo e guarda sempre più verso all’Oriente, Cina inclusa, come centro della propria agenda geopolitica.

I tagli erano nell’aria. In passato erano stati evitati, ma ora sono resi inevitabili dagli obiettivi di spesa del governo, che deve fare i conti con l’economia da salvare dopo un anno di pandemia. Il fronte domestico, insomma, è prioritario e il capitolo degli aiuti umanitari e verrà ridotto dallo 0,7 allo 0,5% del prodotto interno lordo. Dentro le cifre ci sono ricadute sugli enti benefici che da quelle sovvenzioni dipendono e, soprattutto, sul soft power di una superpotenza in costante riposizionamento. 

Il budget scenderà a 10 miliardi di sterline rispetto ai 15 miliardi del 2019. Più di metà del capitale, però, è già vincolato a progetti internazionali di lungo corso. All’Unione Europea spetta un miliardo all’interno degli impegni sottoscritti con il patto di recesso. Di fatto, al ministro degli Esteri Dominic Raab restano da spendere solo 3,8 miliardi. Un crollo del 63%, ha calcolato il Times. Briciole.

Diverse organizzazioni non governative, come Save The Children, hanno espresso preoccupazione per i tagli, mentre il Foreign Office replica ricordando che il Regno Unito rimarrà comunque uno dei maggiori Paesi donatori. Nel frattempo, però, Boris Johnson ha promesso i più grandi investimenti militari «degli ultimi trent’anni», parole sue, perché «l’era della ritirata è finita». Ma gli annunci invernali si sono ridimensionati in primavera. 

Il quadro delle forze armate è in chiaroscuro. Mentre Downing Street programma di aumentare da 180 a 260 le testate nucleari e finanzia la nuova generazione di jet Tempest, l’esercito perderà 9500 effettivi. Certo, la leva di massa è il passato e nella guerra ha perso salienza la fanteria. Non è una smobilitazione, ma è comunque un fallimento, perché l’obiettivo era stabilizzare a quota 82 mila il numero di soldati. Oggi sono 76 mila, tra quattro anni saranno 72,5 mila: la più piccola armata che il Regno Unito abbia avuto negli ultimi secoli, ha scritto il Financial Times

Non è solo il personale in divisa a risentire di questa austerity che è l’altra faccia degli slogan a telecamere accese. Subirà tagli verticali il parco mezzi di settecento blindati Warrior. Saranno dismessi un terzo dei carri armati Challenger II e ne verranno svecchiati solo 148, al prezzo di 1,3 miliardi. Andranno in pensione più di 100 aerei e la flotta della Royal Navy perderà due navi, in attesa che escano dai cantieri quelle nuove. 

Il Regno Unito resta la seconda potenza della Nato per spese militari dopo gli Stati Uniti e la quarta al mondo (le prime due sono Cina e India). Malgrado la contrazione delle truppe, trasferirà alla Difesa ogni anno 7 miliardi in più di quanto inizialmente previsto. Fuori dall’Ue, il Regno Unito potrà percorrere tre strade principali: partecipare come «Paese terzo» alla Politica di sicurezza e di difesa comune europea (CSDP), utilizzare la Nato come piattaforma per la cooperazione con gli alleati continentali, oppure rafforzare legami bilaterali con partner chiave, come la Francia. 

Per quanto riguarda la politica estera, invece, Londra intende allontanarsi dall’Europa, in senso letterale. In base a un documento pubblicato a marzo dal governo, e intitolato Global Britain in a Competitive Age, il Regno Unito si concentrerà sulla regione indiana e pacifica, «sempre di più il centro geopolitico del mondo». È lì che intende stringere alleanze, o rafforzare quelle esistenti. Nazioni come India, Australia e Giappone. Ma c’è anche la Cina. Il ministro Raab ha ribadito spesso che va evitata «una mentalità da guerra fredda» nei confronti di Pechino.

L’esecutivo ha caldeggiato la collaborazione con il gigante comunista, persino su temi come il contrasto al cambiamento climatico, e oltre all’opposizione dei laburisti si è attirato i malumori di una parte della base Tory, che auspicherebbe maggiore intransigenza. Sul rispetto dei diritti civili nell’ex colonia britannica di Hong Kong, per esempio, oppure sulla repressione della minoranza musulmana degli Uiguri. 

«Si può invocare una leadership globale mentre si tagliano gli aiuti?», si è chiesto il Guardian, per tornare alla notizia che apre questo articolo. La domanda è retorica. La munificenza militare va a due velocità se i progetti principali ripagheranno gli investimenti nel prossimo futuro, ma nel presente c’è un problema di organico. Il tempismo della ritirata umanitaria è discutibile. Prima di varare una controversa «strategia pacifica» forse andrebbero chiariti i rapporti con l’Ue, che dimostra lo stesso opportunismo con la Cina, diventata la sua principale partner commerciale. 

Nel manifesto redatto da Downing Street si legge: «What Global Britain means in practice is best defined by actions rather than words». Una formula fumosa: significa che saranno le azioni meglio delle parole a definire cosa sarà nella pratica la Gran Bretagna globale. Finora, l’impressione è che il Regno Unito sia ancora fermo allo stadio delle parole. 

 

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