Dopo il divorzio, le carte bollate. Lo scontro tra Londra e Bruxelles si è ormai spostato in tribunale. I fronti della diatriba coincidono con alcune nazioni del Regno Unito che si stanno allontanando dalla sfera d’influenza di Westminster: Irlanda del Nord e Gibilterra sono al centro di due procedure d’infrazione avviate dalla Commissione. Questi due casi macroscopici sono la punta di un iceberg. Esistono altri 93 fascicoli analoghi, riconducibili alla Brexit.
Per quanto riguarda l’Ulster, Bruxelles accusa Downing Street di aver violato il protocollo sulla regione. La frontiera doganale sorta tra l’Irlanda e la madrepatria ha esposto le merci inglesi a ispezioni e controlli che hanno innescato frizioni commerciali. L’incidente s’è aperto quando il ministro alla Brexit David Frost ha esteso, senza consultare prima la controparte europea, la moratoria che protegge alcuni beni sino a fine ottobre.
La difesa britannica verte sul carattere temporaneo delle misure. Erano in crisi le catene di approvvigionamento dei supermarket delle sei contee. Poi c’è l’imperativo – geopolitico perché sentito anche negli Stati Uniti, con un presidente fiero delle sue origini cattoliche – di mantenere la pace in Irlanda del Nord. Nell’annuale meeting bilaterale di San Patrizio, il primo ministro di Dublino Micheál Martin ha invocato davanti a Joe Biden uno «stand by» nelle tensioni tra Ue e Gran Bretagna.
Il vicepresidente della commissione Maroš Šefčovič intende portare l’affaire alla Corte di giustizia dell’Unione europea. Londra rischierebbe così una multa, ma l’obiezione è soprattutto di metodo: si contesta la mossa perché unilaterale e si chiede maggiore collaborazione per il futuro. In una lettera separata a Lord Frost, Šefčovič infatti auspica sia il dialogo con l’esecutivo britannico a sciogliere le divergenze politiche, per evitare i duelli legali.
I conservatori hanno seguito il principio della sovranità durante le trattative per la Brexit. Hanno barattato per l’ideologia alcuni dei capitoli che hanno aperto le falle più evidenti nella «Global Britain». Come le 71 pagine dei moduli da compilare per esportare un singolo carico di pesce nel mercato unico. In pochi mesi, ciò è costato 11 milioni di sterline di perdite agli allevatori di salmone in Scozia, per citare la più separatista delle province. Per l’Irlanda del Nord, i calcoli sono del Financial Times, l’aggravio su una singola spedizione alimentare vale 150 sterline.
La seconda causa intentata alla Corte di giustizia, che ha sede in Lussemburgo, risale a quando la Regno Unito faceva ancora parte dell’Unione. Bruxelles vorrebbe sanzioni da 100 milioni di euro per aiuti di Stato illegali che Londra ha garantito a Gibilterra tramite agevolazioni fiscali. A spingere la vertenza è soprattutto la Spagna. Il governo locale ha assicurato collaborazione: le relazioni con Madrid sono migliorate, tanto da firmare un trattato – il primo degli ultimi trecento anni – di cooperazione fiscale sulla Rocca. Grazie all’accordo, i cittadini e le imprese iberiche che si trasferiranno nell’enclave britannica continueranno a pagare le tasse in Spagna.
Il caso farà scuola perché è la prima volta che il Regno Unito viene «portato in tribunale» dalla fine del periodo di transizione (il 31 dicembre 2020). In base al patto di recesso, la commissione potrà farlo per altri quattro anni. Intanto l’Office for National Statistics ha registrato a gennaio un crollo del 40,7% nelle esportazioni verso l’eurozona e del 28,8% nelle importazioni. È la peggiore contrazione dal 1997. Non ci sono state flessioni paragonabili con Paesi non europei: la prova che non c’entra il lockdown, è colpa della Brexit.
Infine, l’Europarlamento deve ancora ratificare il compromesso di Natale tra Boris Johnson e Ursula von der Leyen. Per diventare legalmente vincolante l’intesa commerciale dovrebbe essere votata entro fine aprile, sino a oggi ha funzionato in via d’emergenza: uno stress test che ha scoperto alcuni limiti. Risolverli è la prossima sfida su entrambe le sponde della Manica.