«La possibilità che tra quindici o vent’anni il Regno Unito per come lo conosciamo non esista più è concreta». Dario Fabbri, giornalista e consigliere scientifico di Limes, ha curato il numero sul futuro dell’isola sopravvissuta al suo impero: La questione britannica. Nel 2019 il titolo dell’articolo di apertura La scommessa degli inglesi era divinatorio, perché la strategia pokeristica di Boris Johnson, all’epoca in corsa per la leadership dei conservatori, sarebbe venuta dopo. Prima di capire come sta andando quella partita a lungo termine, ripartiamo dal presente, con rinnovate tensioni separatiste e l’unionismo alla battaglia decisiva.
Il Regno Unito rischia di dividersi?
La prospettiva è realistica. Proviamo a immedesimarci negli scozzesi. Nel 2014 il referendum per indipendenza non passa per poco, tra le altre ragioni perché gli inglesi li minacciano di non farli entrare nell’Unione europea una volta indipendenti. Quel veto ha avuto un certo effetto. Due anni dopo, sono solo gli inglesi, ma senza Londra, che tirano fuori la Scozia dall’Unione europea. Gli scozzesi si ritrovano senza Stato indipendente, dentro il Regno Unito e fuori dall’Ue. Una beffa, con un premier profondamente inglese che non ha alcuna sensibilità verso le province interne, a differenza di Tony Blair che a fine anni ’90 firma la devolution con cui credeva di salvare il Regno Unito. È un tema ricorrente. Secondo gli Accordi del Venerdì Santo, in caso di maggioranza cattolica in Irlanda del Nord, che si verificherà entro quindici anni, l’Ulster avrà diritto a un referendum consultivo per decidere se unirsi a Dublino.
In questa prospettiva, la Brexit ha accelerato l’autonomismo?
Atavicamente gli inglesi non si sono mai sentiti continentali. Non hanno complessi di inferiorità verso gli altri, semmai di superiorità, a volte molto velleitari. La loro scommessa è provare a tenere tutti dentro: direbbero che l’Europa coltiva micro-patrie e staccandosi dal continente vorrebbero impedire agli altri di uscire. Si tratta di Stati troppo importanti e cogenti. La Catalogna è una nazione vera e seria – non è il Veneto, per capirci – ma quando ha provato a portare all’impasse la situazione c’è stato un silenzio totale, anche quando Madrid ha commissariato il governo catalano con un’interpretazione estensiva della Costituzione spagnola.
Per quanto riguarda il rischio, più tangibile che altrove, di perdere pezzi sarebbe allora una forzatura parlare di «paziente inglese»?
Servono due caveat. Primo: gli inglesi sono uno dei popoli più capaci del pianeta. Prima di pensare di poter vivere senza gli inglesi, anche se li odia, uno scozzese ci pensa non una, ma tre volte. Le condizioni economiche non sono eccezionali: il petrolio è quasi finito, non hanno grandissime prospettive. Secondo: l’intervento degli Stati Uniti. Nella prima telefonata con Johnson, quella di cortesia, Biden gli dice subito che il confine tra le due Irlande non può tornare. È qualcosa che ha atterrito il primo ministro. Gli inglesi sanno che gli americani non interverrebbero sulla Scozia ma capiscono bene la questione irlandese e non li aiuterebbero mai. In una situazione alla catalana, gli Stati Uniti inviterebbero Londra a lasciar libero l’Ulster di decidere per sé. In questo senso, possiamo parlare senza dubbio di paziente inglese.
L’Europa che ruolo rivestirebbe in questo quadro?
Bruxelles non esiste di per sé, è animata o non animata dagli Stati. Non vedo Paesi membri che vanno a scagliarsi contro l’Inghilterra sostenendo la causa scozzese; potrebbero farlo sottobanco, ma non apertamente e attraverso le istituzioni comunitarie. Come con la Catalogna: nessuno ebbe il coraggio di scagliare la prima pietra. Spagna e Regno Unito si assomigliano molto: i residui degli imperi non si sopravvivono mai.
A proposito di Spagna, Gibilterra si avvicina all’Area Schengen.
Gibilterra non appartiene realmente agli inglesi, è soprattutto degli americani, che hanno di stanza lì i sommergibili nucleari. Per questo è una non questione. Gli spagnoli la vorrebbero, però la globalizzazione che noi conosciamo si basa sul controllo americano degli stretti e degli istmi. Per ragioni di parentela, sul piano strategico gli inglesi rischiano molto meno. Ogni volta che la Spagna preme sulla Gran Bretagna arrivano gli americani, perché la Spagna ha problemi simili ai nostri, non ha margini di manovra.
Johnson è un problema o una risorsa per l’unionismo?
Un problema. È troppo inglese, nel senso coloniale del termine. Ha estrazione aristocratica, cinque o sei nomi. Sono nazioni di stirpe diversa: gli inglesi sono germanici, gli altri celtici. I sassoni che arrivavano sull’isola guardavano i celtici come primitivi. È un retaggio antichissimo che le case aristocratiche hanno ancora. Per essere brutali: Johnson ha questo grande limite, quando sente le velleità autonomiste le considera inaccettabili perché provenienti da popoli inferiori. È molto intelligente, acuto e veramente colto, ma è pieno di sé. È convinto d’aver ragione anche dove sbaglia.
Cosa dovrebbe fare Boris per sventare la secessione?
È una domanda difficile. Dovrebbe essere sostituito da un primo ministro meno inglese, il Regno Unito ne avrebbe bisogno. Non so se un gallese possa bastare, un premier scozzese che guida i conservatori non c’è. Non parliamo dei laburisti.
E la Brexit? Ha minato l’unità del Regno Unito?
Finora è stata destabilizzante per l’unionismo, ma è presto. Noi che non conosciamo le dinamiche interne del Regno Unito, abbiamo pensato che sia un Paese come un altro, ma il problema non era il rapporto con istituzioni europee. Hanno detto: stacchiamoci dal continente per restare coesi. A oggi, questo sta creando l’opposto, un effetto centrifugo. La seconda anima della Brexit è la Global Britain. Da sempre, la strategia nel Regno Unito per stemperare le tensioni è guardare fuori. Storicamente ha funzionato. Per esempio, nella toponomastica delle colonie, inaugurate alle loro provincie, come la Nova Scotia. Per ora la scommessa sta andando male, ma un Paese come l’Inghilterra ragiona nel lungo periodo. Di solito, il residuo di un impero fa sempre una brutta fine, in questa generazione o nella prossima.