Se la società fosse un esperimento di laboratorio, noi potremmo più facilmente isolare le sue singole caratteristiche, osservarne lo sviluppo e l’evoluzione, interferire con esse, stimare l’effetto dei nostri interventi e pertanto governare conoscendo in anticipo le conseguenze che otterremmo.
Ovviamente la società non è un esperimento di laboratorio e questo, che è vero sempre, sotto certi versi lo è ancor più in tempi di pandemia. Il fatto che ci troviamo in un periodo straordinario legittima azioni straordinarie da parte dei decisori pubblici.
A dispetto di una delle più abusate e paternalistiche metafore politiche, che paragona il governo a un medico, che indirettamente ha legittimato la cacofonia comunicativa di questi mesi, nei quali abbiamo perso il senso della distinzione fra scienziati, esperti di salute pubblica, medici e governanti, i governi non operano come un medico che deve affrontare la malattia sconosciuta di un paziente e prova un possibile rimedio, ne testa l’efficacia e nel caso sia insufficiente passa a un altro, sulla base di un’ipotesi diagnostica che porta con sé delle opzioni terapeutiche.
Il medico ha dalla sua l’antica saggezza del giuramento di Ippocrate: un documento essenzialmente corporativo, ma che basa la legittimità dell’intervento del medico sul fatto che egli, per prima cosa, eviti di non far male, di non peggiorare lo stato della malattia.
Al principio di non maleficità nell’ultimo mezzo secolo si sono affiancati dei principi che tengono conto del fatto che la medicina è diventata efficace – ai tempi di Ippocrate non lo era – ma proprio per questo le decisioni dei medici devono essere più controllate e devono essere spiegate ai pazienti, che possono essere o meno d’accordo.
I politici reagiscono ad altri incentivi: sulla pressione dell’emergenza, devono “fare”, e spesso fanno senza ragionare o senza spiegare cosa stanno facendo e perché.
Questo dà conto almeno in parte del perché negli scorsi mesi sono state messe in campo una congerie di misure per contenere il contagio da Sars-Cov-2.
Quali hanno avuto successo? È difficile dirlo, proprio perché tutte sono state messe in atto assieme e soprattutto esse hanno incontrato il coinvolgimento attivo della popolazione. Gli esperti hanno ragionato su un metro rozzo: ridurre i contatti, per ridurre il contagio. Idea rozza ma incontrovertibile.
Eppure, ciò che serve a società complesse come la nostra per governarsi sono informazioni un po’ più raffinate: quanti contagi si verificano in questo contesto sociale, quanti in quell’altro, dove una misura non farmacologica funziona e dove è superflua, ecc., per non sparare sul mucchio ma avere strategie di intervento (e, anche, limitazioni della libertà personale) più “chirurgiche”.
Le conoscenze rilevanti sono molto spesso locali, così come solo la conoscenza del territorio e della rete ospedaliera di quel territorio può dirci quante ospedalizzazioni per Covid19 può sopportare. Sarebbe ingeneroso sostenere che i nostri governanti, o i membri del Comitato tecnico scientifico, non lo sappiano. Ma essi devono fare i conti con un’opinione pubblica che voleva e vuole misure uguali per tutti, per avere almeno il conforto di essere “tutti sulla stessa barca”.
Ora nell’occhio del ciclone è il coprifuoco. La misura è particolarmente odiosa: è una limitazione della libertà di movimento che colpisce tutti, indipendentemente dal territorio e dall’andamento dei contagi.
Evoca, anche nel nome, il periodo della guerra e in questo è perfettamente funzionale alla metafora che ha dominato il discorso pubblico nei mesi scorsi. Ma in guerra contro chi? Contro un microrganismo, che non ha alcun piano di invasione, che non ha obiettivi strategici, che non ha una volontà sua propria ma semplicemente si riproduce cercando di farlo quanto più possibile. Il virus non è come l’aviazione nemica, che aspetta il crepuscolo per i suoi raid.
Il coprifuoco ha funzionato? Difficile a dirsi, proprio perché non è stata la singola e sola variabile il cui successo è misurabile in un ambiente chiuso come quello di un esperimento di laboratorio. Ha senso mantenerla? Sicuramente non ci sono ragioni scientifiche per farlo: il coprifuoco rientra nel novero delle misure di buon senso “orecchiato”, tagliate col falcetto, limitare i contatti per limitare i contagi.
Ma quanto li ha limitati? Quanto incide su di essi? Gli studi quantitativi prodotti in giro per il mondo forniscono dati contrastanti, dai quali si evince che il coprifuoco in quanto tale non è dirimente come misura nel contrasto alla diffusione del virus.
Soprattutto: quanto inciderebbe e quanto inciderà nell’Italia dei mesi a venire? Se si vuole consentire ai ristoranti di aprire la sera per cena, il coprifuoco alle 22 appare una scelta curiosa, a meno che non vogliamo cambiare le abitudini di milioni di italiani e avvicinarle per legge a quelle di cittadini dell’Alabama o della Georgia, abituati a cenare alle sei di sera.
In più, i ristoranti potranno aprire, sì, ma solo se provvisti di un dehors o di tavolini all’aperto. Ora, se si cena all’aperto, verosimilmente l’ora in cui si termina di cenare non fa differenza. Semmai, è probabile che coppie e gruppi di amici, abituati, per l’appunto, a orari e costumi italiani, se non possono proseguire la cena al ristorante poi se ne vadano a casa dell’uno o dell’altro per continuare le loro discussioni o bere il bicchiere della staffa, violando il coprifuoco ma con maggior discrezione. Oltre al danno ci sarebbe la beffa, dal momento che abbiamo imparato che ci si contagia molto più facilmente esponendosi l’uno all’altro al chiuso che all’aperto.
Tutt’altra cosa sarebbe, ovviamente, se la cena fuori fosse consentita a tutti i ristoranti, anche senza tavolini all’aperto. In quel caso, il coprifuoco equivarrebbe a un sistema di riduzione dell’offerta: meno cene, meno contatti, meno contagi. Non siamo, neanche in questo caso, dalle parti della precisione che ci si aspetterebbe da attenti lettori dei “dati” quali le nostre autorità politiche e sanitarie dicono di essere. Ma almeno, come dire, il profilo di buon senso reggerebbe.
L’incoerenza della misura, dunque, stupisce. Ma stupisce ancor di più il fatto che si è perso, nel dibattito pubblico, la dimensione del valore della libertà personale. Andare dove vogliamo e con chi vogliamo dopo le dieci di sera non è un capriccio e non è una cosa da ragazzini – anche se sono naturalmente i più giovani a trarre di solito maggior profitto dall’esercizio di questo diritto.
È la libertà, forse una delle libertà più basilari ed evidenti delle persone. È possibile continuare a limitarla senza nemmeno chiedere scusa agli italiani? Si ascoltano commenti e interventi, da parte di persone benestanti e che magari godono di larghi privilegi di movimento, che irridono snobisticamente o inquisitivamente l’aspettativa dei cittadini di non vedersi conculcati dei fondamentali diritti che sono anche le condizioni per cui fioriscono attività economiche e di socializzazione quali ristoranti, cinema, teatri, etc. che rendono apprezzate le società in cui viviamo.
Da quando una posizione del genere è diventata quella “di sinistra”, politicamente corretta e intellettualmente rispettabile nei cenacoli delle persone perbene? Basta il fatto che questa istanza sia stata raccolta dalla destra e in particolare modo da Matteo Salvini a farne una forma di populismo?