Dopo aver ospitato ieri a LinkiestaTalks Calenda e Tinagli, Bentivogli e Bonino, Gori e Scalfarotto per farli discutere sulle conseguenze politiche del governo Draghi sono arrivato alla conclusione che la conseguenza politica del governo Draghi è Mario Draghi medesimo. I liberali e i democratici, i riformisti e i repubblicani, ma anche Enrico Letta se non vuole riconsegnare il Pd ai populisti a rotelle o inseguire progetti unitari già falliti quando non erano ancora nati i social, dovrebbero fare certamente tutte le importantissime iniziative che credono sui territori e contro le diseguaglianze, tutti i dibattiti sulle leggi elettorali e le riforme, tutti i posizionamenti necessari sulle favolose transizioni ecologiche e digitali, senza dimenticare niente delle politiche attive sul lavoro e delle annose vertenze aziendali, ma tenendo ben saldi due soli principi non negoziabili, fondamentali, indiscutibili.
Il primo principio non negoziabile è che Draghi dovrà restare in carica fino alla fine della legislatura, nel 2023; il secondo è quello di indicare Draghi come premier anche dopo le elezioni del 2023.
Il primo punto è decisivo, perché disarma il tentativo di riscatto dei populisti di sinistra e di destra che passa attraverso l’elezione di Draghi al Quirinale a inizio 2022, lo scioglimento successivo delle camere e le elezioni politiche nazionali con lo schema del bipopulismo perfetto Cinquestelle-valvassori-Pd contro sovranisti russi-e-orbaniani, infischiandosene del fatto che da qui ad allora, in un solo anno di governo, difficilmente il buon senso di Draghi potrà farci uscire dalla pandemia e dalla catastrofe economica e sociale che ne è seguita.
Chi ha a cuore il futuro del paese, nei prossimi dodici mesi dovrà scongiurare l’ipotesi di promoveatur Draghi ut amoveatur, cominciando a ripeterlo già adesso come un mantra, il-governo-durerà-fino-alla-scadenza-costituzionale-della-legislatura, e lavorando intanto a una soluzione per il Quirinale 2022 che vada da una rielezione alla Napolitano di Sergio Mattarella all’individuazione di una figura di altrettanta autorevolezza, qualcuno come Sabino Cassese o Emma Bonino. Ognuno faccia i propri nomi, ma la questione non è chi andrà al Quirinale, la questione è che non dovrà andarci Draghi.
Il secondo principio non negoziabile è altrettanto decisivo per evitare che nel 2023 a Palazzo Chigi ci vadano Conte o Salvini o Meloni: scaduta l’attuale legislatura, non importa con quale legge elettorale si andrà a votare né chi sarà il capo politico della coalizione, il Pd e l’area liberaldemocratica, più chiunque altro ci vorrà stare, dovranno indicare come Presidente del Consiglio meritevole della fiducia parlamentare il professor Mario Draghi, possibilmente con una maggioranza coerente con il risultato elettorale, ma anche senza come del resto è già capitato con tutti e sei i governi dell’attuale e della precedente legislatura. E dovranno cominciare a indicarlo politicamente prima del voto, specificando che si tratta di punto fondativo della proposta di governo, e poi formalmente alle consultazioni con il Capo dello Stato. Una cosa che consentirebbe a Letta di respingere le tentazioni di ritorno al passato, ai liberaldemocratici di non accapigliarsi sulla leadership e all’Italia civile di poter contare su un’alternativa seria e credibile ai fratelli magiari Salvini e Meloni.
Insomma, l’uovo di Draghi.