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Marco Bentivogli, Emma Bonino, Carlo Calenda, Giorgio Gori, Ivan Scalfarotto, Irene Tinagli. Sono loro i protagonisti del talk de Linkiesta “Le prospettive politiche del governo Draghi”. «Qualcuno ha scritto su Twitter che sarebbe il consiglio dei ministri dei sogni», dice il direttore de Linkiesta Christian Rocca.
Si parte con le prospettive del nuovo Partito democratico guidato da Enrico Letta. «Il Pd oggi è il Pd delle sue origini», dice Irene Tinagli, vicesegretaria Dem. Un partito, spiega, «che tiene insieme diverse sensibilità di centrosinistra, con obiettivi condivisi di crescita sostenibile, sostenendo la crescita da un lato e diritti di chi è più fragile dall’altro». Significa, secondo Tinagli, «portare insieme tradizioni diverse per perseguire una visione comune di società» con l’obiettivo di «aiutare queste tradizioni a essere incisive nella società e nella politica italiana». Naturalmente, «non si può prescindere dalle alleanze. Il segretario ha aperto un dialogo con tutte le forze politiche con le quali pensa di poter avviare una collaborazione. Lo facciamo da una prospettiva del Pd che vuole essere protagonista, senza pregiudizi e veti e guardando ai programmi».
Carlo Calenda, leader di Azione e candidato sindaco a Roma, si tiene a distanza dal Pd. «Abbiamo obiettivi simili, ma restiamo distanti in termini di mezzi», dice. «C’è l’area dei riformisti fuori dal Pd e da Forza Italia che va strutturata prima delle prossime elezioni». La proposta di Calenda è quella di una «costituente liberaldemocratica, che si dia forma di partito e che si presenti alle prossime elezioni».
Più che un partito, Emma Bonino, senatrice di PiùEuropa, propone invece una «federazione di realtà già esistenti». «Dopo trent’anni di tentativi di vario tipo, io non do per vinta e spero che invece adesso si riesca», dice la senatrice. «Dobbiamo imparare a lavorare insieme. Non è facile, perché ognuno si porta dietro una storia e le sue ambizioni legittime». E a Enrico Letta – «che ha visto tutti meno che noi» – dice: «L’idea di voler riformare i Cinque Stelle è ampiamente rischiosa: io, dopo tre anni che li ho visti, non tenterei questa strada. Un conto è una alleanza elettorale, un’altra è una alleanza strategica».
Il suggerimento che arriva da Ivan Scalfarotto, di Italia Viva, sottosegretario al ministero dell’Interno, è quello di «mettersi insieme sulle cose. Poi magari magari verrà il simbolo, le federazioni o il partito». Ovvero: «Sosteniamo Draghi quando fa le cose riformiste ed evitiamo i personalismi». Resta però anche per Italia Viva la contrarietà alla alleanza strategica del Partito democratico con i Cinque Stelle. «Il Conte 2 era un male necessario per evitare di avere un governo Salvini», dice Scalfarotto. Ma «è stato complicatissimo. Il nostro ruolo in quel governo è stato tirarlo sulle nostre posizioni finché è stato possibile». Per Italia Viva, però, resta ferma una convinzione: «Non si va con i sovranisti e non si va con i populisti. Devi sapere chi sei. Io mi sento un liberaldemocratico. Oggi non riuscirei a stare nel Pd».
Le critiche al Partito democratico arrivano anche dal sindaco di Bergamo Giorgio Gori, esponente del Pd che più volte ha fatto le pulci al governo Conte 2. «Spero che il governo Draghi duri fino alla fine della legislatura», dice il sindaco. «Ma noi abbiamo anche la responsabilità di far sì che l’agenda Draghi diventi una linea a cui si deve dare rappresentanza politica e continuità anche oltre la scadenza del 2023, con Draghi o senza Draghi».
Molto dipenderà dalla legge elettorale che si costruirà. Sia Bonino sia Gori si dicono sostenitori del maggioritario, ma senza i pastrocchi che si sono visti negli ultimi anni. «Vedrei come inutile o dannoso per il Paese un ritorno al proporzionale di cui tutti troppo presto hanno dimenticato effetti nocivi», dice Bonino. Gori propone un «sistema maggioritario a doppio turno e spero che su questa idea ci sia una convergenza di forze». Calenda invece sostiene che «il maggioritario non ha funzionato in Italia, anzi ha fatto sì che la politica si estremizzasse sempre di più. Quello che accade con il maggioritario è che alle prossime politiche si cercherà di comporre una cosa talmente larga che sarà d’accordo solo con il no alla destra. Questa roba va spezzata, il Paese non se la può più permettere».
Come collocare in questo quadro il rapporto con i Cinque Stelle? «Va ricercata una alleanza di carattere elettorale con i Cinque Stelle che non può essere indipendente dai contenuti», specifica Gori. «Non credo che sia in partenza da escludersi la ricerca di una collaborazione. L‘importante è che sia sulla nostra agenda». Significa che il Pd deve essere «centrale», ma puntando «prima di tutto sulla convergenza con le forze liberaldemocratiche». Significa che «ci diciamo che linea vogliamo tenere sulla giustizia, se siamo per scommettere sulle imprese o sullo Stato imprenditore, se riconoscere il merito o l’egualitarismo. Dipende qual è l’agenda, a un’agenda riformista possono essere aggregati anche i Cinque Stelle o quello che ne rimane». Senza dimenticare però il Pd prima di tutto deve staccarsi dalle posizioni tenute durante il governo Conte bis: «Il tempo del governo Draghi deve essere usato bene. Abbiamo la responsabilità di sciogliere i nodi dentro il nostro partito, perché è nel Pd che si sono condivise le politiche stataliste del Conte bis, il taglio dei parlamentari, l’abolizione della prescrizione».
Ma la politica non si fa solo dentro i partiti. E Base di Marco Bentivogli ne è la prova. «Abbiamo una novità che consente uno spazio in termini di approfondimento e contenuti che è il discorso fatto da Draghi in Parlamento», dice Bentivogli. Ma «quel discorso non è sostenuto da una maggioranza politica in Parlamento». Ci sono troppi temi – dice l’ex leader della Fim Cisl – «che non possono essere agganciati come accessori di una agenda politica. Dobbiamo dire al Paese che il nostro orizzonte è costruire un Paese che cresce e genera lavoro». Bentivogli cita i dossier Alitalia e Ilva, il reddito di cittadinanza e quota cento. «Le questioni industriali e le questioni del lavoro sono assenti», ribadisce. «Con 660mila disoccupati non si può non dire che la rimozione del vertice dell’Anpal non è all’ordine del giorno. Se non si parla di politiche attive ora quando se ne parla?». Per Bentivogli, «le discontinuità del Pd vanno testimoniate con una pratica politica diversa. Letta ha sbagliato a considerare con una delega in bianco una alleanza con un soggetto terzo che non ha ancora chiarito quali sono i suoi riferimenti, neanche in politica estera».
E anche Bentivogli, come Calenda, chiede «una fase costituente», che coinvolga tutto il Paese, con un unico soggetto politico. «L’Ulivo funzionò perché fece discutere centinaia di migliaia di persone», dice Bentivogli. «Non possiamo essere afoni su lavoro, industria, città, salute. Non credo nelle federazioni di partito. Bisogna avere il coraggio di riconfigurare il sistema politico italiano e rappresentare uno stile di fare politica in maniera diversa».
Irene Tinagli, annunciando per i prossimi giorni gli incontri del Pd con i sindacati e le categorie produttive, mette in guardia: «Non innamoriamoci però di idee che abbiamo letto nei libri di macroeconomia vent’anni fa. Stiamo attenti a cercare soluzioni pragmatiche nell’orizzonte attuale». Temi come il ruolo dello Stato nell’economia o la riforma del reddito di cittadinanza «vanno calati nella situazione di crisi attuale», spiega la vicesegretaria. «Si stanno creando delle aree di interventismo dello Stato nel capitale delle imprese in Europa, dalla Francia alla Germania. Dobbiamo dotarci di strumenti per capire quale sarà il nuovo assetto».
Certo, specifica, non si tratta di «keynesismo delinquenziale», ma di «solvency», ovvero «schemi temporanei di aiuto alle imprese sane che sono in difficoltà in questo momento», che lo stesso Draghi ha sostenuto. E anche, dice Tinagli, «sul Rdc non si può pensare di chiedere la cancellazione ora, ci vuole un occhio a quella che è la realtà. Serve certamente una riforma ammortizzatori e delle politiche attive. Questo è il lavoro su cui mi piacerebbe confrontarmi con tutti per giocare insieme la stessa partita». Bentivogli però ribadisce la necessità di allontanarsi dal «welfare elettorale», perché – dice – «si costruisce lavoro, non dipendenza dallo Stato e su questo non ci possono essere ambiguità in una agenda riformista».
Il prossimo nodo per misurare il rapporto tra le diverse componenti di quest’area saranno le elezioni a sindaco di Roma. «Credo che Carlo Calenda possa essere il prossimo sindaco di Roma», dice Giorgio Gori. «Si devono trovare le forme perché questa candidatura sia condivisa. Per questo vedo con favore le primarie». Anche Tinagli sostiene la candidatura di Calenda, passando per le primarie: «Possono essere uno strumento valido e utile, come è stato per Sala a Milano. È utile, prepara alla competizione elettorale». Il sostegno alla candidatura del leader di Azione arriva anche da Bonino, Scalfarotto e Bentivogli. Ma il leader di Base escluderebbe il passaggio dalle primarie: «Potrebbe succedere di tutto, meglio fare un accordo per avere una candidatura unica con Calenda».
Ma servirà soprattutto trovare il modo per fare convergere le diverse anime di quest’area in vista delle prossime elezioni politiche. Un aiuto può arrivare anche dal “Programma per l’Italia” del centro liberaldemocratico a cui sta lavorando Carlo Cottarelli, mettendo insieme diverse personalità del mondo della cultura, dell’impresa, del lavoro. Ma «bisogna darsi un disegno organizzativo e una forma quanto prima, perché Draghi potrebbe arrivare a fine corsa, ma è possibile pure che non succeda», dice Calenda. Emma Bonino propone di «cominciare a ragionare sui punti in comune di cui siamo convinti ed essere pragmatici», senza dimenticare «i diritti civili, che sono diritti sociali, non patrimonio di qualche radical chic», perché «l’aborto sicuro non è una mania dei pariolini», precisa.
E anche Scalfarotto chiede un «lavoro preventivo comune». Che significa «essere insieme sulle cose, fare battaglie comuni, invece di spararci addosso», dice il sottosegretario, togliendosi qualche sassolino dalla scarpa sulle scorse regionali in Puglia. Quando il Pd ha appoggiato Michele Emiliano e non lui («uno che dice che il cantiere della Tap somiglia ad Auschwitz»), e la coalizione con Più Europa e Azione – che lo aveva sostenuto – lo abbandonato il giorno dopo le elezioni «accusando me del fallimento».
«Siamo quelli che assomigliano di più a Draghi, usciamo da un’ottica competitiva e guardiamo in un’ottica collaborativa», ripete Scalfarotto. «Diamo vita al riformismo italiano smarrito, sperduto, diviso, a tutto vantaggio dei sovranisti e populisti». Ma, avverte Bentivogli, bisogna prima affrontare un problema: «Dobbiamo riportare la politica alla popolarità, che significa riabitare i luoghi e i contenuti della vita delle persone normali».