C’è qualcosa di pre-politico nel rapporto fra i maggiori esponenti dell’area riformista che sta dentro e fuori il Partito democratico che non è nemmeno tout court riconducibile alle legittime ambizioni personali: è come se, con tutta la buona volontà del mondo, nessuno se la sentisse di gettare il cuore oltre l’ostacolo e prendere in mano la situazione. Prendiamo il dibattito organizzato da Linkiesta che si è svolto ieri: tutti sostanzialmente d’accordo sul punto di fondo – sconfiggere il bipopulismo di questi anni – e d’accordo anche sulla lettura della fase imperniata sulla figura e sulle idee di Mario Draghi, che tutti auspicano duri più a lungo possibile, certamente fino al 2023 ma anche oltre. Però, quando si passa al “che fare” i passi avanti risultano millimetrici.
La difficoltà sta nell’individuazione dello strumento politico per far avanzare le proprie idee, e questo al di là delle varie ricette organizzative – per Emma Bonino una federazione, per Carlo Calenda un vero partito – come se si avesse tuttora poco chiaro il destino di un’area che, pure minoritaria, esiste e peserebbe se espressione di una nuova offerta politica. Marco Bentivogli forse è quello più impaziente di tutti, e la sua idea di una fase costituente di quest’area come fatto di popolo e non di sigle ha almeno il pregio di cominciare a delineare una road map, uno stile di lavoro memore dell’esperienza dell’Ulivo.
Ma quali sono i punti di maggiore difficoltà che rendono questo processo ancora così accidentato? Sorvolando sulla questione, pure importante, della legge elettorale che poi alla fine tutto modella (persino in quest’area tradizionalmente maggioritarista spunta l’opzione proporzionalistica di Calenda), diremmo che un primo enigma riguarda come al solito il Partito democratico.
Se fosse vero quello che ha osservato Giorgio Gori, cioè che con l’avvento di Enrico Letta è più facile «spostare il baricentro del Pd» su posizioni più avanzate di quelle del biennio zingarettiano, ecco che l’area riformista potrebbe avere una sponda importante e la possibilità persino di influenzare Letta, per esempio, nello svincolarsi dall’abbraccio strategico con il Movimento 5 stelle seppure rivestito della retorica contiana. Qualcosa si sta muovendo anche nel partito di Letta, forse la nascita di una nuova corrente ultrariformista (Andrea Marcucci), evento paradossale dopo l’evocazione di Schwarzenegger appunto contro le correnti.
E tuttavia per ora nessuno ha chiaro cosa il neosegretario del Pd abbia in testa, al di là della volontà di ascoltare tutto il mondo senza però ancora indicare una chiara linea politica. Ed è una incognita che non agevola la costruzione di un nuovo progetto ma che impone un’attesa sull’evoluzione, o meno, del primo partito del centrosinistra.
Seconda questione, l’enigma Renzi. Che, al di là di tutte le polemiche, rappresenta una variabile non da poco per il futuro di quest’area. Che vuole fare, il leader di Italia viva? Lo ha chiesto due volte Calenda, senza risposta. Qui c’è poco da inseguire i “si dice” da cui si evince tutto e il contrario di tutto. Ma è vero che dall’alternanza anche comportamentale del senatore fiorentino è impossibile indovinarne il futuro politico e la mission di Italia viva: e questa, obiettivamente, è un’altra incognita che non aiuta un progetto politico nuovo, sebbene ieri Ivan Scalfarotto abbia proposto di iniziare a lavorare e a concordare su temi concreti per dare un’anima a quest’area. Il che non sarebbe poi difficile, a stare al merito della questione: dalla giustizia ai diritti alle riforme economiche fra Bonino e Tinagli, fra Scalfarotto e Bentivogli, da Calenda a Gori non ci sono certo distanze abissali.
Infine un altro scoglio (e ritorniamo al Pd) riguarda le prossime amministrative di Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna, Trieeste e le regionali in Calabria. Che scelte farà, il Nazareno? Quello che si profila è una specie di patchwork, un po’ con candidati grillini (Napoli), un po’ con candidati propri (Bologna), un po’ con candidati civici (Torino) o Verdi (Milano). In questo quadro Roma è speciale, perché il Pd (almeno i romani) vorrebbero un nome dem – Roberto Gualtieri – contro un candidato riformista, Calenda, quello della destra e Virginia Raggi: uno schema kamikaze, molto rischioso.
Nel dibattito de Linkiesta ha destato perciò qualche sorpresa che Irene Tinagli, vicesegretaria del Pd, abbia spezzato una lancia in favore di Calenda e «non per amicizia» ma proprio per un giudizio politico: la cosa ha enormemente irritato i “duri” della Capitale, intervenuti prontamente con grossolani tweet di rimprovero e poi chissà quanto privatamente, visto che il Nazareno e la stessa Tinagli hanno dovuto precisare che decideranno le primarie (verosimilmente ristrette al Pd e compagni di strada), un modo per dire no a Calenda che correrà per conto suo con l’appoggio delle forze riformiste e, stante il doppio endorsement di Gori e Tinagli, anche di pezzi dell’elettorato democratico.
I lavori sono comunque in corso e alla fine potrebbe essere persino un omaggio a una dinamica inevitabile che una quadra la si trovi. Prima che i populisti rimontino la china.