Migrazione stagionaleFragole, sangue e donne invisibili

Chadia Arab, geografa e ricercatrice francese, racconta nel suo ultimo libro l’incubo delle lavoratrici stagionali marocchine, che arrivano in Spagna per partecipare alla raccolta della frutta e subiscono abusi, molestie e condizioni di lavoro sfiancanti

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Ogni anno, in Italia e in Europa, migliaia di braccianti sottopagati, spesso in nero e clandestini raccolgono le fragole che arrivano sulle nostre tavole. Lavoratori da sempre invisibili per la politica e per i consumatori, ma essenziali nella filiera che porta nei supermercati e nelle nostre case frutta e ortaggi a basso prezzo. Quello nei campi è un lavoro durissimo, che risponde alle logiche della grande distribuzione e che si basa sullo sfruttamento di persone i cui diritti non solo non sono tutelati, ma vengono ancora più difficilmente riconosciuti quando le lavoratrici sono donne.

Chadia Arab – geografa e ricercatrice francese di origine marocchina, esperta di flussi migratori e discriminazioni di genere, ricercatrice dell’Unità mista di ricerca in Spazi e società del CNRS-Centre National de la Recherche Scientifique all’Università di Angers – ha deciso di seguire il percorso delle braccianti marocchine impiegate nella raccolta delle fragole nel sud della Spagna. Il suo libro “Fragole. Le donne invisibili della migrazione stagionale”, racconta le storie di queste donne scelte per le loro condizioni economiche e sociali precarie per fornire una forza lavoro non sindacalizzata, pronta a lasciare il paese al termine della stagione.

Lo scorso 14 marzo il festival di giornalismo Internazionale a Ferrara – organizzato in collaborazione con il comune di Ferrara, Arci Ferrara e Associazione IF – ha ospitato Chadia Arab, che è stata protagonista di un panel introdotto e moderato da Annalisa Camilli. L’abbiamo incontrata, per approfondire alcuni aspetti che ci toccano purtroppo parecchio da vicino, e che spesso vengono ignorati per pigrizia o per comodità.

Nonostante lo sfruttamento, le molestie e le violenze siano ormai sotto gli occhi di tutti, com’è possibile che questo sistema continui non solo a fiorire, ma a prosperare?
Prima di tutto vorrei dire che violenze e molestie esistono, ahimè, ma per fortuna non sono la norma. In ogni caso, anche un solo caso di violenza sessuale è già un caso di troppo. Questo circolo continua a prosperare perché rientra in un sistema economico e politico molto più vasto. In primo luogo economico, perché ogni anno ci sono marocchine che partono dal loro paese per andare a raccogliere fragole nella provincia spagnola di Huelva e far prosperare l’economia globalizzata della fragola (l’“oro rosso”) che permette alla Spagna di arricchirsi. Si tratta di un settore con un fabbisogno puntuale di manodopera: da 3 a 6 mesi per la raccolta delle fragole. In secondo luogo è un sistema politico, perché consente di lottare contro l’immigrazione clandestina, un obiettivo importante per l’Europa, che in questi ultimi anni sta facendo di tutto per bloccare i migranti alle sue frontiere, nel quadro di una visione securitaria dell’immigrazione, ma al tempo stesso favorisce la migrazione circolare, quella appunto delle marocchine che arrivano in Spagna per lavorare e poi a fine stagione ritornano nei loro Paesi d’origine. Infine, questo sistema prospera anche perché la maggioranza delle lavoratrici afferma che andando a lavorare in Spagna guadagna di più e migliora la propria vita. Insomma, il fenomeno si inscrive in una partita win-win, cioè dove vincono tutti: vince la Spagna, che si procura una manodopera docile, lavoratrice e a basso costo, e vince il Marocco, che vede le lavoratrici stesse tornare in patria con gli euro in tasca.

La chiave del problema sta anche nel fatto che, a quanto pare, le lavoratrici stagionali sono almeno parzialmente soddisfatte, perché le condizioni di lavoro in Spagna, ai loro occhi, sono comunque migliori di quelle nel Paese d’origine. Come si spezza un simile circolo vizioso?
È vero: per molte donne che hanno vissuto il lavoro agricolo in Marocco, le condizioni di lavoro in Spagna sono migliori. Innanzitutto perché in Marocco percepiscono un salario molto inferiore, circa 7-8 euro a giornata, contro i 38 che possono sperare di guadagnare in Spagna in una giornata particolarmente buona. Inoltre, quando lavorano in Marocco le lavoratrici sono costrette a soffrire anche le condizioni dei trasporti, il lavoro in nero, le molestie, la mancanza di copertura sanitaria. Ciò non significa però che le cose in Spagna vadano meglio, ma solo che, a paragone di ciò che vivono in Marocco, certune vi scorgono un netto miglioramento. Ed è questo un altro paradosso della migrazione circolare. Poiché le donne che vanno a lavorare in Spagna provengono da ceti sociali molto svantaggiati, in realtà è facile migliorare le loro condizioni di lavoro, e si rendono molto rapidamente indipendenti dal lavoro stagionale in Spagna. Secondo me, occorre migliorare il sistema per accompagnare meglio queste lavoratrici: inizialmente a monte, cioè in Marocco; poi mentre lavorano in Spagna; e infine quando tornano in Marocco.

Quali sono le responsabilità del governo marocchino, e quali quelle del governo spagnolo? Pensa che i due governi siano ben contenti di chiudere un occhio e approfittare, ciascuno a suo modo, della situazione?Ritengo che la responsabilità di queste donne ricada su entrambi i governi. Il reclutamento che viene effettuato in Marocco dovrebbe essere seguito meglio, spiegando alle donne i loro diritti e dando loro lezioni di lingua spagnola. Inoltre le molestie sessuali e lo sfruttamento sul lavoro si potrebbero benissimo ridurre se i due governi se ne preoccupassero più seriamente. Per il momento, ogni anno emergono nuove lamentele da parte delle lavoratrici marocchine riguardanti le molestie.

Comunque sia, non credo che i due governi chiudano un occhio proprio su tutto, su altri piani hanno effettivamente pensato a come migliorare la situazione. Nel 2019, ad esempio, il governo marocchino ha approntato misure per seguire queste lavoratrici, assicurando un follow-up in darija, il dialetto arabo che si parla in Marocco, oppure in tamazight, cioè in lingua berbera. Alle lavoratrici deve poi essere fornito il numero di una linea telefonica dedicata che fornisce ascolto e orientamento; vanno messi a loro disposizione degli opuscoli e delle guide di sensibilizzazione in merito ai loro diritti; bisogna insegnare loro lo spagnolo. Sono provvedimenti più che utili: indispensabili! Capire la lingua del paese dove si lavora è di importanza primaria per vivere meglio il proprio soggiorno all’estero. Poter comunicare con spagnole e spagnoli è necessario per orientarsi meglio nel mondo nuovo in cui queste donne si trovano a muoversi per vari mesi all’anno. Tuttavia, per ora queste giuste misure sono rimaste senza applicazione.

Sul versante spagnolo invece, la Ministra dell’Economia Yolanda Diaz ha avuto il coraggio di paragonare l’agricoltura nel sud della Spagna allo schiavismo. Poi, a seguito di queste affermazioni, nel maggio del 2020 la ministra ha annunciato nuovi provvedimenti per avviare una campagna dell’ispettorato del lavoro e dei controlli nelle cooperative che producono fragole nella provincia di Huelva, e più in generale nelle aziende agricole dell’Andalusia. Diaz ha dunque denunciato i maltrattamenti delle lavoratrici e ha proposto un rafforzamento dei controlli da effettuare in tema di sfruttamento dei lavoratori, di tratta di esseri umani, di lavoro forzato e in generale di schiavismo.

È importante che questa presa di coscienza da parte del governo marocchino e di quello spagnolo avvenga in modo concertato e in contatto con tutto il tessuto dell’associazionismo: le associazioni di aiuto alle e ai migranti, di assistenza alle lavoratrici, oltre che i sindacati sia marocchini, sia spagnoli che si sono mobilitati per evidenziare le difficoltà quotidiane delle marocchine che lavorano in queste aziende agricole. Occorre tener conto del lavoro di queste associazioni e anche, direi, integrarle negli accordi di partnership.

Ci sarebbe, secondo lei, una maniera efficace e dignitosa per l’Europa di regolamentare la migrazione circolare? Quale?
Non direi che finora non si sia fatto nulla, ma si potrebbe certo fare molto di più e molto meglio e ho l’impressione che i governi stiano cominciando a rendersene conto. E poi, ricordiamo che il 17 giugno 2018 si è tenuta una grande marcia che ha visto per la prima volta una vera convergenza delle lotte: lotte femministe, lotte antisessiste, lotte antirazziste e lotte di classe. Tutte queste associazioni e movimenti sono giunti per la prima volta a lavorare insieme e a dare visibilità a queste lavoratrici. Perché è la mancanza di visibilità che favorisce lo sfruttamento di queste donne, le quali subiscono una triplice discriminazione: dominazione di classe, per via della loro povertà economica; dominazione di sesso, per il fatto di essere donne; dominazione di razza, perché sono migranti. Tale intreccio di dominazioni costituisce un potente incoraggiamento alle molestie.

Per regolamentare la migrazione circolare al meglio occorrerebbe agire per dare loro più diritti: diritto alla mobilità, regolarizzando la loro posizione; diritto di riunione, permettendo a mariti e figli di accompagnarle nel viaggio; diritto all’intimità, offrendo loro alloggi dignitosi; diritti sociali, riconoscendo loro il diritto di sciopero e quello al trattamento pensionistico.

Quanto incide e inciderà la pandemia da Covid-19 sulla migrazione dal Marocco alla Spagna?
La pandemia costituisce un ulteriore motivo di preoccupazione. La crisi sanitaria ha infatti rivelato ed esacerbato la situazione dei più precari: donne, abitanti dei quartieri popolari che sono stati spesso in prima linea nei lavori essenziali (operatori sanitari, cassiere, netturbini, lavoratori/lavoratrici dell’agricoltura, ecc.). Mentre nel 2019 hanno potuto andare a lavorare nella provincia spagnola di Huelva quasi 19 mila marocchine, per la stagione 2020 sono state soltanto 7 mila, su 16 mila 600, a ottenere contratti temporanei e a recarsi in Spagna. Le altre non hanno potuto ritornare nelle coltivazioni spagnole di fragole a causa del blocco dei trasporti internazionali. Coloro che sono riuscite a ottenere i contratti, a causa della penuria di manodopera agricola in Europa, hanno lavorato incessantemente nei campi di fragole e i loro contratti sono stati persino prorogati. Per giunta, poiché si tratta di frutti delicati e fragili, finora i datori di lavoro hanno incoraggiato le donne a coglierle senza protezione, rischiando di rovinarsi le mani e la salute. Ma oggi, di fronte al contesto di crisi sanitaria, ci si interroga (finalmente) sulla questione del distanziamento fisico nelle serre, dove fa molto caldo, come anche sulla forte promiscuità, sulle condizioni di trasporto e sul rispetto delle norme di protezione, come l’obbligo di portare mascherina e guanti.

Molti sostengono che il boicottaggio di alcuni alimenti – nel nostro caso le fragole – prodotti calpestando i diritti umani possa costituire una prima soluzione.
Sì, il boicottaggio è un modo di solidarizzare con queste lavoratrici. Nel mondo esistono tanti movimenti di boicottaggio: penso ad esempio al boicottaggio dei prodotti israeliani per denunciare la condizione di apartheid che vivono quotidianamente i palestinesi. Penso anche, su un fronte diverso, a Rosa Parks, che fu arrestata nel 1955 per non aver voluto cedere il suo posto in autobus a un bianco, e che ha ricevuto il sostegno della comunità afroamericana, che ha boicottato gli autobus. Oggi una celebre romanziera spagnola, Lucia Etxebarria, si è posta al fianco delle lavoratrici marocchine della provincia di Huelva, manifestando la propria solidariet con i suoi scritti. Nel 2018 il giornale El Periódico ha pubblicato un suo commento intitolato “Se sei femminista, non comprare fragole”.

In Italia il caporalato è diffusissimo, soprattutto nel settore ortofrutticolo del Mezzogiorno. Quali differenze e quali analogie riscontra con lo stesso fenomeno in Spagna?
L’Europa combatte l’immigrazione clandestina, ma al tempo stesso, durante la pandemia da Covid-19 sempre a causa della grave penuria di manodopera agricola, abbiamo visto paesi come l’Italia e il Portogallo regolarizzare migranti, donne e uomini, per consentire loro di venire a lavorare da loro. Si è capito allora fino a che punto quello delle e dei migranti fosse un lavoro essenziale.

In Italia Aboubakar Soumahoro, il sindacalista e difensore dei migranti, che mi ha fatto l’onore di scrivere la prefazione al mio libro, denuncia quotidianamente gli abusi e lo sfruttamento dei migranti da parte degli imprenditori agricoli. Ad esempio, la produzione dei pomodori nel meridione d’Italia poggia su una manodopera precaria e a basso costo formata da migranti. Come in Spagna, quel sistema è stato assimilato a una moderna schiavitù per via delle condizioni di lavoro disumane, degli alloggi fatiscenti, delle umiliazioni, delle molestie, ecc. Anche una giornalista italiana, Stefania Prandi, ha proposto un raffronto fra la filiera dei pomodori in Italia e quella delle fragole in Spagna e una similitudine fra le molestie e lo sfruttamento subiti dalle lavoratrici giornaliere dell’agricoltura italiana e spagnola.

Che cosa possiamo fare noi consumatori finali per evitare di appoggiare questi sistemi basati sullo sfruttamento?
Torno sulla risposta che ho dato a proposito del boicottaggio. Dobbiamo essere consumatori responsabili e non convalidare un sistema di sfruttamento come questo. Ma penso che dovremmo agire soprattutto sul piano dei diritti di queste donne e dell’assistenza da dar loro sia in Marocco, sia in Spagna, perché come ho spiegato, le lavoratrici nonostante tutto non vogliono che questa migrazione circolare cessi visto che guadagnano bene. Si tratta davvero di un sistema bifronte: da una parte emancipa e autonomizza queste donne, dall’altra crea emarginazione per tutte coloro che sono sfruttate e molestate.