Feriti e contentiPiù che speranza ho fiducia nel nostro spirito di adattamento, dice Ghemon

Il cantante ci spiega che nel suo nuovo disco ha cercato di raccontare il suo modo di affrontare il disagio, che è abbracciarlo un pochino: accettare le imperfezioni ed esserne addirittura felici

Matteo Rasero/LaPresse

Come era già accaduto nel 2020, anche quest’anno il Festival di Sanremo non è stato solo una parentesi, ma continua a far parlare a più di due settimane dalla sua conclusione. E questa è una conseguenza non immediata, ma evidente di come le nostre vite sono cambiate. Tra le canzoni di maggior successo del Festival c’è pure “Momento perfetto” di Ghemon contenuta in “E vissero feriti e contenti”, il nuovo disco dell’artista uscito venerdì scorso (ma come non ricordare anche il suo medley con i Neri per caso come uno dei momenti più piacevoli del Festival?). Il disco esce a meno di un anno dal precedente, “Scritto nelle stelle”, ma è evidente che Ghemon abbia molte cose da dire, con i testi, con la musica e soprattutto con la sua versatilità, che gli permette di spaziare in tanti generi e anche in mondi diversi. I suoi profili social, per esempio, sono tra i migliori che possa capitare di seguire in Italia. Tra le altre cose mostrano quanto sia inutile essere promozionali per promuovere le proprie cose. Mentre molti artisti e persino politici mostrano quello che mangiano o quello che cucinano, per apparire artificiosamente sinceri, Ghemon fa apparire la sincerità naturale come dovrebbe essere.

Hai notato che quest’anno Sanremo ha una coda molto lunga?

Ha una scia inesorabilmente più lunga non solo per la pandemia e le zone rosse, ma anche perché ormai il Festival è entrato in una forma di mediaticità per cui prima viene commentato e analizzato in diretta, e, poi, ogni esibizione, ogni canzone, perfino ogni cover e ogni minuscolo momento possono avere la propria vita online. E quella continua, indipendentemente dal resto. Rispetto a quando c’era solo l’esibizione televisiva è un mondo nuovo. Quindi dei pezzi possono andare avanti con le proprie gambe anche per mesi.

L’altro aspetto è che – o almeno a me sembra così – la scelta delle canzoni e degli artisti rappresenta meglio la contemporaneità rispetto a quando Sanremo era un’istituzione a cui ambiva soprattutto un certo tipo di artisti.

Al Festival ci sono sempre state delle cose che non appartenevano per forza al mainstream, ma, forse, la differenza con oggi era che, prima, erano delle semplici schegge impazzite mentre, adesso, se le schegge impazzite diventano dieci, allora la rottura diventa importante. Prima era la “quota esotica”, adesso bisogna dire che è lo stato dell’arte nella musica italiana. Allo stesso tempo devo dirti che io non presto particolare attenzione ai commenti al cast prima delle esibizioni perché, anche se il popolo è sempre sovrano, mi sembrano sempre pareri dati un po’ al bar. Perché lo schema si ripete identico da anni, prima ci sono i “ma questo chi è” e poi, dopo l’esibizione, quegli artisti diventano popolari. Pensa anche solo agli ultimi tre anni, se avessimo dato retta ai commenti sul cast certi artisti che ora sono diventati meritatamente mainstream sarebbero rimasti nella nicchia. Da questo punto di vista il Festival ha ancora grandi meriti.

Rispetto a questo forse il paradosso è che Sanremo spinge sull’acceleratore del cambiamento molto più di quanto faccia il resto della televisione generalista.

È più permeabile perché – anche se non ne capisco bene la ragione – la televisione generalista tiene sempre una grande quota conservativa per far stare più tranquilla la gente a casa. E, negli anni, ha perso anche il ruolo di divulgazione culturale che aveva. Certe cose che potevano succedere in televisione negli anni Settanta e Ottanta, ma anche in buona parte degli anni Novanta, dopo sono diventate pressoché impossibili. Anche solo, semplicemente, le trasmissioni musicali con musica dal vivo sono ridotte all’osso.

In questo momento in cui lo spettacolo dal vivo è impossibile, la tv potrebbe in qualche modo supplire. Invece…

Questo è vero. Però ormai è un dato di fatto. L’altra sera stavo guardando una serie su Apple TV e mi sono trovato a pensare che ho un abbonamento a Netflix, quello a Disney+, quello ad Amazon… Cinque anni fa mi sarebbe sembrata un’idea molto fredda quella dell’on-demand, invece adesso la trovo del tutto naturale. Credo che ormai sia così per chiunque abbia meno di cinquant’anni. Cambia tutto molto velocemente, magari qualche servizio on-demand saprà cogliere anche questa occasione.

Nel titolo che hai dato al disco “E vissero tutti feriti e contenti” quanto è forte il riferimento al momento che stiamo attraversando?

Il riferimento c’è, ma è in senso lato. Una frase che mi ha molto colpito, anche se poi non saprei attribuirne la paternità, è che «la cronaca si distrae, ma la storia no». Che per me significa che quando cerco appigli nella contemporaneità, cerco sempre anche degli appigli che possano superare un pochino il presente. Per questo spero che il disco si potrà ascoltare anche tra dieci anni senza doverlo legare per forza, mentalmente, alla pandemia: l’ambizione è, quindi, che racconti il periodo che stiamo vivendo senza risultare vecchio quando lo sorpasseremo. Allo stesso tempo il disco è frutto di una riflessione che avevo avviato già prima che dovessimo chiuderci in casa e che, forse, è venuta fuori di più e meglio proprio perché, come molti, abbiamo avuto l’occasione per fermarci e parlare di più con tanti amici e tante persone.

Di cosa ti sei reso conto?

Che tutti subivano le botte da questa situazione. Ma che tutti ricavavano anche un tipo di crescita personale diversa. Magari si rendevano conto che, però, almeno le persone a cui volevano bene stavano bene, che almeno avevano il pane in casa, che dovevano lavorare da casa ma almeno avevano ancora un lavoro, insomma riscoprivano certe piccole cose che davano per scontate. E allora ho voluto credere in questo titolo, che contenesse almeno un po’ di speranza.

Adesso la speranza è rara: un anno fa, di questi tempi, ce n’era molta di più. Adesso mi pare prevalga la rabbia.

Prevale l’esaurimento nervoso

Il trauma, quello che è contenuto nel tuo “feriti”.

L’accento nel titolo è sicuramente più su contenti che su feriti. Un anno fa eravamo tutti scossi e non avevamo idea di cosa sarebbe successo mentre adesso, in qualche modo, abbiamo imparato a riadattarci. Abbiamo riadattato il lavoro, i nostri rapporti, la maniera in cui acquistiamo le cose, facciamo le riunioni, parliamo con gli amici, sfruttiamo la tecnologia, perciò più che speranza ho fiducia nell’incredibile spirito di adattamento delle persone e nella loro capacità di scoprire le gioie anche nelle difficoltà. Forse quel “contenti” più che speranza contiene quello che definirei “spirito di adattamento”.

A proposito di adattamento, una delle canzoni, per me, più belle del disco è “Tanto per non cambiare”.

Il cambiamento è necessario, no? Ma quello della necessità di cambiare è uno dei temi di tutto il disco.

Anche di “Momento perfetto”.

È un pezzo pieno di energia e di grande positività, ma non è affatto un pezzo allegro, anzi contiene un sacco di riflessioni amare. Però contiene anche la positività del guardare avanti e dell’impegnarsi attivamente perché le cose si mettano per il meglio. Non aspetto che accada, ma accetto la sfida di cambiarle io per primo.

In “Non posso salvarti”, invece, emerge il fastidio per chi prova a frenare gli altri.

Tutti noi, me compreso, abbiamo un fianco scoperto e persone che non vedono l’ora di infilare tutto il viso nel nostro fianco scoperto. Ma la persona che sta sempre a guardarti e sta sempre a puntarti il dito è una persona che non si sente vista dal mondo e, probabilmente, colma le sue insicurezze e le sue fragilità proprio cercando di puntare il dito sugli altri. È un atteggiamento che ho riscontrato contro di me, ma che vedo replicarsi su tanti miei coetanei: una confessione personale che ho provato a rendere universale.

I social, dando visibilità soprattutto alle critiche e a chi critica, hanno amplificato al massimo questo aspetto.

Ormai siamo al passo che non solo dicono pubblicamente tutto quello che pensano di te, anche le cose più tremende, ma ti taggano pure per essere sicuri che tu lo sappia. Ovviamente a voce non avrebbero mai il fegato.

Nei tuoi testi hai sempre trattato un tema complesso come il disagio mentale.

Credo che sarà l’argomento principe una volta che avremo superato la parte emergenziale della pandemia. Ma a quel punto dovremo affrontare sul serio tutte le ferite che questa situazione lascerà. Non sono poche. Per dirtene una semplice, ma pure molto efficace, che ti fa capire quanto il nostro modo di guardare le cose sia cambiato: quando accendo la televisione e guardo un film la prima cosa che penso è: «Perché non hanno la mascherina?». Mi viene in automatico. Sembra poco, ma è significativo, no? Adesso tu pensa alle persone che hanno affrontato tutto questo da sole, agli anziani che hanno rinunciato ai contatti per un anno, a chi ha perso il lavoro, a tutti gli strascichi che può significare per la salute mentale delle persone. Sarà un lavoro enorme. Devo pure dirti, però, che in questo disco ho cercato di raccontare anche il mio modo di affrontare il disagio che è abbracciarlo un pochino: accettare le imperfezioni ed esserne addirittura felici. Felici di accettarsi.

Feriti e contenti. Senza il “ma” a separarli. Non è una piccola differenza.

Esatto. Per questo il disco si apre con un’intro che poi è la fine di una fiaba. Perché il disco è un altro libro, non è il capitolo successivo del disco precedente. È il desiderio di guardare avanti in un’altra maniera, conoscendo i propri punti deboli, ma pure quelli forti.

Ti sento molto soddisfatto del lavoro.

Stamattina sono andato a fare una lunga corsa. Perché correre mi aiuta a pensare con lucidità, una cosa che non facciamo mai per bene, presi come siamo da mille distrazioni. Mentre correvo, man mano sentivo salire una grande felicità dentro di me per come sono riuscito a esprimermi musicalmente in questo album. È una cosa che forse non si dovrebbe dire.

Dillo invece, ormai la modestia non è cool.

Eh, ma io sono cresciuto con altri valori. Ad ogni modo, sono contento anche di aver continuato con un certo tipo di suono che considero tutto mio. E, mentre correvo, sono riuscito finalmente a guardare il quadro da fuori, senza essere al centro della scena come capita quando ci lavori, ho avuto un momento di lucidità, ho visto il disco completo e mi sono sentito davvero soddisfatto.

Ti è pesato stare fermo quest’anno?

Certamente mi è pesato, però non l’ho voluto subire e, anzi, ho voluto cercare tutte le contromisure necessarie per trovare il lato positivo delle cose e tenere da parte i pensieri che mi potevano mettere di cattivo umore. Questo non significa essere sempre felice, ma dare un senso a ogni giornata perfino quando ha significato solo uscire per fare due ore di coda per la spesa.

Accanto alla dimensione internazionale della tua musica c’è anche, nei testi, il piacere della dimensione provinciale, e dico “provinciale” da fan della provincia italiana, come complimento.

In parte la provincia mi manca, ma sono stato fortunato – o se preferisci, abile – ad aver ricreato questo genere di dimensione nella mia vita di tutti i giorni. Faccio cose semplici, passo giornate senza essere chiamato mai Ghemon, ma Gianluca, sia quando vado a fare la spesa che quando vado a pagare la bolletta. Questo mi tiene ancorato con i piedi alle cose piccole che poi sono quelle che voglio raccontare nelle canzoni.

Tu usi i profili social benissimo. Ti costa fatica?

La vivo abbastanza bene perché quello che esprimo sui social fa parte della parte più ironica di me, una cosa che magari non ho neanche fatto venire troppo fuori nelle canzoni.

Devi trattenerti, mostrarti diverso da quello che sei o ci riesci con naturalezza?

A un certo punto ho capito che potevo utilizzare i social per far parlare quest’altro lato di me che era inutile tenere nascosto. Vedo che è un modo che va incontro alle persone che così si fanno un’idea a tutto tondo di me. Non me ne frega niente di fargli sapere che cosa sto mangiando o dove sto andando in vacanza, però di come sono veramente sì. E questo c’entra anche con la musica. In questo disco c’è un pezzo reggae, c’è un pezzo house, c’è un pezzo più soul… e anche io sono così, mi è capitato di fare la radio, di fare un podcast e, sui social, mi va di esprimermi in questo modo. La sostanza è il messaggio che porto, cioè quello che penso, ma lo posso declinare in tanti modi.

Ti diverte?

Sono un grande appassionato di stand-up comedy da qualche anno. Mi piace perché dentro ci trovo un’ironia molto amara su sé stessi, sulle proprie insicurezze, sulle proprie paure e sulle cause. Ma ci si ride sopra ed è quello che, alla fine, viene da fare anche a me. Capisco il disagio che c’è dietro molti spettacoli, ma riconosco quanto mi riguardi.

Allora come ultima cosa ti chiedo un consiglio su una stand-up di Netflix.

“3 Mics” di Neal Brennan.

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