Uno è vissuto nell’era di Mtv, l’altro parlava con principi e sovrani. Uno ha riempito stadi e fatto tournée in tutto il mondo, l’altro non ha mai messo piede fuori dalla Germania (o quello che era ai tempi).
Bach e Prince non potrebbero essere più distanti. Ma secondo il musicologo Carlo Boccadoro non potrebbero nemmeno essere più vicini. In un libretto dal titolo eloquente “Bach e Prince. Vite parallele” (Einaudi Stile Libero) si diverte a fare l’elenco delle somiglianze tra i due musicisti per vedere come «entrambi abbiano risolto, ognuno nel proprio tempo e modo, i problemi e le sfide musicali che si sono trovati davanti durante la loro esistenza». La risposta lunga è il libro stesso, quella breve è: in modo molto simile.
Entrambi erano di provincia, se si può dire così. Bach dedito a Lipsia (all’epoca di 13mila abitanti) e inserito, come un ingranaggio perfetto nel ritmo delle commissioni e delle scadenze locali (messe, celebrazioni, festività).
Prince invece si ritaglia il suo mondo a Chanhassen, nella cintura di Minneapolis, unico luogo dove poteva creare, scrivere e comporre. «Non mi considero una superstar. Vivo in un paesino, e ci vivrò per sempre», aveva dichiarato nel 1985 a Mtv. Certo, aveva anche altre case (in Spagna e a Los Angeles) ma il suo mondo, ristretto, si costruiva lì.
Entrambi erano maniacali, con caratteri rigidi, poco propensi al compromesso. Entrambi poi si avvalevano di collaboratori fidatissimi e li costringevano a sessioni lunghe ed estenuanti. Prince aveva solo due tecnici del suono: Peggy McCreary e Susan Rogers. A loro chiedeva dedizione totale, presenza per 24 ore al giorno e grande resistenza. «Andava avanti per decine di ore unicamente bevendo ettolitri di caffè e sgranocchiando caramelle alla menta per la gola. Diceva che se faceva pausa era unicamente per permettere a me di avere qualche ora di sonno», rivelerà nel 2019 Peggy McCreary.
Come musicisti – almeno all’inizio – Prince si rivolgeva solo ai suoi amici di infanzia, come il bassista André Cymone, il batterista Bobby «Z.» Rivkin e il cantante Morris Day.
La stessa dimensione, cioè ridotta, era quella di Bach: lui per la scrittura e stesura delle sue opere utilizzava i membri della famiglia. I figli e la moglie erano al suo servizio (è emerso negli anni che fosse un uomo severo, durissimo), copiavano le partiture a ritmi frenetici sotto il suo sguardo attento.
Così il tinello era diventato una catena di montaggio-scrittura per permettergli di fornire (cosa nemmeno necessaria) una cantata nuova ogni domenica. Scriveva da lunedì a giovedì, poi si copiava e si provava il sabato.
Entrambi insomma avevano bisogno di un guscio protettivo, perché «la personalità di questi due musicisti trovava compimento solo nel controllo totale del risultato di ciò che scrivevano».Entrambi erano duri con gli esecutori delle loro composizioni, ed entrambi avevano un’etica del lavoro suprema.
Entrambi, poi, erano noti come polistrumentisti. Bach era un genio del violino, dell’organo, del clavicembalo, del clavicordo. Cantava benissimo, almeno in gioventù. Prince, a 18 anni, si presentò negli uffici di Mo Ostin e Lenny Waronker «alti papaveri della Warner Bros. Records» e dichiarò di non voler soltanto produrre da solo il suo primo album, ma anche di suonare tutte le sue parti. E lo fece, impressionando tutti: prima incise la batteria (nello stile di Stevie Wonder), poi il basso (stile: Larry Graham) e poi via via chitarra (Jeff Beck e Santana) e tastiere (punto di riferimento: il padre), fino alla voce e ai cori.
Soprattutto, sia Bach che Prince sono accomunati dalla profonda solidità della loro musica, concentrata sul tessuto compositivo e sulla precisione, quasi matematica, della sua struttura. Costruiscono un’intera architettura musicale partendo da elementi molto piccoli, quasi minimi, in una tecnica di microtrasformazioni che parte da una cellula e punta all’infinito.
È anche per questo che le opere di Bach possono essere eseguite al contrario senza risultare sbagliate (al massimo, sembrano più novecentesche, per gli accostamenti insoliti e i salti di tonalità), o trascritte per qualsiasi strumento senza perdere efficacia.
Prince, dal canto suo, lo faceva con il groove, partendo cioè da basi ritmiche più che melodiche: «Prendiamo ad esempio un pezzo come D.M.S.R., dall’album 1999, che costruisce un progressivo accumulo di tensione a partire da un ritmo elementare di batteria elettronica e un riff semplicissimo fondato su un solo accordo, più un altro di passaggio per il bridge, inserendosi così nel solco di una tradizione illustre di classici del funk come Get Up (I Feel Like Being a) Sex Machine di James Brown».
Di confronto in confronto, l’accostamento di Boccadoro diventa sempre più convincente. Bach finisce per illuminare Prince, e Prince per dare nuovo spazio a Bach. Non si tratta di un legame fatto di coincidenze o aneddoti (o meglio: non solo). Lo stile dei musicisti è figlio dei tempi, le società erano lontane. Ma lo spirito (per rispolverare parole desuete) sembra viaggiare sopra queste cose. E dalle Variazioni Goldberg a Purple Rain sembra svolgersi un’unico filo comune.