Quando un leader politico si arrampica sugli specchi la situazione è seria. Ecco un Matteo Salvini in ritirata: «Noi siamo i più leali alleati di Draghi e siamo rispettosi dell’appello di Mattarella – ha detto ieri – se qualcuno cerca chi vuole rompere chieda al Partito democratico o pensi alla felpa che abbiamo visto pochi giorni fa. Siamo convintamente nel governo Draghi, non è il governo di altri. Siamo leali ma non fessi, questo non è il governo Orlando-Speranza».
Si dice che la linea del capo leghista sia quella della formula berlingueriana di 40 anni fa, “partito di lotta e di governo”. Fatte le debite differenze, c’è da dire che non andò bene neanche allora, e infatti il Partito comunista finì stretto dalla Democrazia cristiana da una parte e dell’estremismo di sinistra dall’altra. Ed era Berlinguer: figuriamoci Salvini.
Anzi, a ben vedere quella del numero uno di via Bellerio è in realtà la linea del “partito né di lotta né di governo”, essendo la lotta patrimonio, seppur di non eccelso livello, di Giorgia Meloni e il governo saldamente in mano a Mario Daghi.
Stritolato in questa tenaglia d’acciaio, il leader della Lega procede alla giornata, a tentoni, senza più quel fiuto di una volta che lo portava a cavalcare emozioni e ansie diffuse, benché esasperate ad arte, quella dell’immigrazione soprattutto, bandiera che da tempo è stata arrotolata, da quando cioè si è capito che si tratta di un fenomeno assolutamente governabile. O la sicurezza, le pistole per tutti: sembra roba di secoli fa, un armamentario finito in soffitta.
E ieri Salvini, sconfitto per ko dal presidente del Consiglio sulla questione-bandierina dell’accorciamento del coprifuoco, ha esternato per la prima volta il terrore di essere sbattuto fuori dal governo – la reprimenda di Draghi e le bordate di Letta hanno avuto effetti – consapevole che senza la Lega si andrebbe avanti lo stesso con la famosa “maggioranza Ursula”: i numeri ci sarebbero.
Gli conviene dunque non forzare troppo la mano, i sondaggi già segnalano qualche smottamento e non parrebbe il caso di creare confusione nel suo elettorato che in fondo ha digerito in fretta la svolta leghista del dopo-Conte.
Quanto a ministri, manco a dirlo, Salvini sente molto la pressione dei “governativi” ormai filo-draghiani: il solito Giancarlo Giorgetti, certo, ma anche il ministro del Turismo Massimo Garavaglia (e verosimilmente anche Erika Stefani), i tre leghisti che in Consiglio dei ministri fanno massa con i tre forzisti – Brunetta, Maria Stella Gelmini e Mara Carfagna – più Elena Bonetti di Italia viva e ovviamente i tanti tecnici chiamati da SuperMario, mentre i tre del Partito democratico seguono il premier sempre più irritati con la Lega (mentre il Movimento cinque stelle è sempre missing).
Ecco perché nella seduta di due giorni fa, quando si sono dovuti astenere Giorgetti e Garavaglia non sono apparsi ai colleghi per nulla di buon umore: hanno dovuto, un po’ sovieticamente, seguire le indicazioni del capo del partito e non quelle del capo del governo.
Battuto in ritirata, e dunque costretto a lasciare la bandierina antigovernativa alla rivale Meloni, Salvini ha lasciato al fido Massimiliano Fedriga, neopresidente della Conferenza Stato-Regioni, il compito di continuare a sbraitare sul tema della scuola, tra l’altro suscitando diversi malumori (Zingaretti, per esempio) per una gestione di parte della Conferenza che non lascia intravedere nulla di buono.
È comunque evidente che Salvini non è più il dominus assoluto del suo partito, e prima o poi di fronte a una linea oscillante qualcuno nel suo partito potrebbe fargli notare che sta prendendo schiaffi da destra e da sinistra che effettivamente è quello che succedendo: nemmeno Matteo Salvini è al di sopra della logica della politica, se riesce a capirla.