«Affidabilità e prevedibilità sono due qualità non negoziabili per gli americani; negli Usa c’è un protocollo giuridico per tutto, anche per gesti semplici come lavarsi le mani, accendere la luce, aprire il rubinetto dell’acqua. Al museo spaziale Intrepid, vicino all’aeroporto di New York c’è uno shuttle; persino lì, sulla porta della capsula, c’è scritto: “Girare da destra a sinistra”. Gli americani cercano di prevedere tutto: si proteggono dagli eventi con l’arma del diritto e ritengono inviolabile la parola data».
Questa riflessione di Gianni Castellaneta è essenziale per comprendere cosa potrà accadere anche in futuro, lungo l’Atlantico. Il 3 novembre 2020, quando Joe Biden vince le elezioni e Donald Trump le contesta duramente urlando ai brogli, l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte è tra gli ultimi a riconoscere apertamente la vittoria del candidato Dem. Il 7 novembre, al mattino, in un’intervista al Corriere della Sera, si mostra ancora cauto: “Attendiamo con rispetto e fiducia la conclusione del complesso processo elettorale”; per poi scrivere la sera stessa su Twitter: “Siamo pronti a collaborare con il presidente eletto Biden per rendere le relazioni transatlantiche più forti”. Di fronte all’occupazione violenta di Capitol Hill, nel gennaio 2021, Conte non attribuisce alcuna responsabilità diretta a Donald Trump: “Seguo con grande preoccupazione quanto sta accadendo a Washington. La violenza è incompatibile con l’esercizio dei diritti politici e delle libertà democratiche. Confido nella solidità e nella forza delle Istituzioni degli Stati Uniti”.
Dopo l’insediamento di Joe Biden e Kamala Harris, è il segretario di Stato Anthony Blinken a telefonare a Roma, per il primo contatto tra le due amministrazioni. Dall’altro capo del filo, il 28 gennaio, c’è il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e Giuseppe Conte si è da poco dimesso, ma in quel momento la possibilità che possa ancora una volta succedere a sé stesso è molto quotata.
Martedì due febbraio 2021 mi trovo a Montecitorio: manca poco alla diretta per il Tg1 delle 20.00, quando Matteo Renzi annuncia la rottura definitiva delle trattative con la coalizione giallorossa per il Con te Ter; il presidente della Camera Roberto Fico, che aveva ricevuto un mandato esplorativo dal capo dello Stato Mattarella, sale al Colle. Dopo qualche minuto, il presidente della Repubblica assume un’iniziativa: si rivolge ai cittadini e a tutte le forze parlamentari con un discorso breve, intriso di gravitas, poiché grave, sottolinea, è la situazione del Paese; poco dopo ancora rende noto di aver convocato per l’indomani l’ex presidente della Bce Mario Draghi, per conferirgli l’incarico di formare il nuovo governo. Nell’intervallo della semifinale di coppa Italia tra Inter e Juventus, andiamo in onda con un’edizione straordinaria del Tg1: “Chiaramente il discorso di Mattarella ha stravolto lo scenario politico”, registro in apertura alla mia diretta. Il capo dello Stato ha appena fatto ricorso alla più alta delle riserve della Repubblica – l’uomo che alla guida della Bce ha di fatto salvato l’Euro – per rispondere alla nuova crisi di sistema italiana. Il neo premier avvia le consultazioni, e chiarisce apertamente il profilo del nuovo governo: “Europeista e atlantista”.
Draghi è stato il primo italiano a conseguire un dottorato al prestigioso Mit di Boston; di quel periodo Marco Cecchini, biografo non ufficiale del presidente del Consiglio, in un breve colloquio concessomi ad inizio febbraio 2021, ricorda:
“Con Franco Modigliani e Robert Solow, due neo keynesiani, il milieu americano di Draghi in quegli anni prende forma e si struttura nel corso del tempo, non avendo lui mai trascurato i rapporti con i circoli della east coast statunitense, e con personalità del mondo economico quali Ben Bernanke, Larry Summers, Rudi Dornbusch, Stanley Fischer – poi governatore della banca di Israele e vicepresidente della Fed [Federal Reserve System, ovvero la banca centrale degli Stati Uniti, N.d.R.]. Da un punto di vista culturale e di approccio alle politiche economiche, Draghi è senz’altro più americano che tedesco, anche perché italiano lo è poco”.
A Cecchini chiedo anche alcune osservazioni rispetto all’evoluzione nel tempo delle relazioni dell’ex presidente della Bce con l’altra sponda dell’Atlantico:
“Da banchiere centrale ha avuto opinioni contrastanti con Janet Yellen – allora a capo della Federal Reserve ed attualmente segretaria al Tesoro – poiché scettica sull’Euro, in quanto moneta senza Stato. Draghi, con abilità, riuscì a farla ricredere e il loro rapporto migliorò. Le relazioni con i leader politici, invece, nascono ai vertici internazionali: Draghi, ancora in via Nazionale, era presidente dello Fsb – il Financial Stability Board – organismo consulente in merito alla politica economica dei Paesi del G7 e G20: da lì si strutturarono anche contatti con Barack Obama e Joe Biden. Nelle sue precedenti esperienze non c’è mai stata però una presa di posizione sugli equilibri internazionali; di certo è favorevole al multilateralismo e si rende conto che il blocco europeo deve muoversi in asse con gli Stati Uniti”.
Appena diventato presidente del Consiglio, Draghi riceve un affettuosa telefonata di congratulazioni di Joe Biden, e risulta evidente già dal primo G7 cui partecipano entrambi – il 19 febbraio – quanto le loro due agende coincidano: battere la pandemia, ricostruire l’economia, proteggere il clima per vincere la sfida della quarta rivoluzione industriale e gestire l’impatto geopolitico dell’innovazione tecnologica. In quella sede Biden chiarisce: “America First è finita, l’Alleanza atlantica è di ritorno”, sottolineando perciò ancora una volta la volontà di riprendere a collaborare e proteggere l’Europa; del resto, già nel 2020, ben prima di vincere le elezioni, aveva teorizzato il ritorno di una leadership statunitense alla guida di un’alleanza delle democrazie.
Mario Draghi invece, nelle sue dichiarazioni programmatiche in Parlamento, ha pronunciato una frase chiave: “Non c’è sovranità nel la solitudine”. Il ritorno dell’Occidente dipenderà dalla capacità dell’Europa di farsi corpo politico, senza le ambiguità del passato: nessuno come Mario Draghi conosce la forza e le criticità dell’asse franco-tedesco. Siamo stati più volte testimoni, nella storia recente, di come questo connubio abbia, in alcune delicate circostanze, perseguito e fatto prevalere interessi in contrasto con quelli del nostro Paese. Il presidente francese Emmanuel Macron si è detto stanco di questo stereotipo: “Parigi danza con Berlino, facendo ingelosire Roma. Ma quando Berlino non è abbastanza carina, Parigi si volta e balla con Roma”. Per poi aggiungere che l’arrivo di Mario Draghi alla guida dell’Italia è “un’opportunità per tutta l’Europa”. Dunque se Berlino, Parigi e Roma non riscriveranno un vero patto comune, il ritorno ai fasti del l’Occidente sarà una chimera: uno dei primi banchi di prova sarà il rapporto con Pechino.
“Anche se la nuova amministrazione americana gestirà i rapporti con la Cina in modo più strutturato e in certi casi attraverso le istituzioni internazionali, l’Europa non potrà coltivare tentazioni neutra li. L’atlantismo del XXI secolo terrà o si sgretolerà sulla gestione dei rapporti con la Cina” aveva scritto Marta Dassù, a pochi giorni dal l’inaugurazione della presidenza di Biden.
Con il nuovo governo, le escursioni sulla Via della Seta sono per fortuna finite. Ma dopo il recente accordo commerciale tra Unione europea e Pechino, Angela Merkel ed Emmanuel Macron: “sosterranno che il decuopling, la separazione crescente dalla Cina – che potrebbe essere richiesta dagli Usa – non è auspicabile: una linea che potrebbe trovare il sostegno del nostro Paese”.
Joe Biden ha da subito accelerato riguardo a tutti i dossier legati al digitale e all’innovazione tecnologica, perché è lì che si gioca la competizione con la Cina: una sfida nella quale il presidente degli Stati Uniti vuole l’Europa dalla sua parte, infatti non è un caso che per rinsaldare l’alleanza, Biden sostenga anche una soluzione globale per la web tax a beneficio soprattutto del vecchio continente.
L’Italia di Mario Draghi può giocare al meglio un ruolo di raccordo tra le due sponde dell’Atlantico, e per farlo è necessario che riporti al centro un altro elemento della sua identità: il Mediterraneo. Una politica regionale per costruire un mercato forte nel Mare Nostrum può renderci più competitivi nella sfida alla Cina e può finalmente testare la capacità di Italia, Germania e Francia di tornare a correre insieme verso obiettivi ambiziosi.
Questa breve ricostruzione di più di un trentennio di storia, vuole dimostrare come gli Stati Uniti siano il nostro amico scelto e necessario. Nonostante gli episodi in cui ha abusato della propria supremazia ai danni del nostro Paese, al di là di ogni retorica, la crisi del l’ordine liberale e la scarsa trasparenza mostrata dalla Cina agli albori della pandemia, ripropongono più che mai l’importanza dei nostri comuni valori occidentali: su tutti, democrazia e libertà.
Così come Federico Fellini diceva del suo amico e compositore Nino Rota, trovo che l’Italia possa definirsi “l’amico magico” degli Stati Uniti: talvolta sfuggente e ambiguo, quando invece leale, brillante, prezioso e all’altezza del proprio interesse nazionale, ed altre volte ancora eccessivamente subalterno. Un amico – l’Italia – che può mostrarsi tanto più forte e affidabile, quanto più lo è il tenore della sua classe dirigente.
da “L’America per noi- Le relazioni tra Italia e Stati Uniti da Sigonella a oggi”, di Mario De Pizzo, Luiss UP, pagine 150, euro 16