Gli influencer, queste mitologiche creature che spuntano dagli smartphone, sempre allegri e con la messa in piega perfetta, non sono tutti uguali: parola di Gianluca Antonelli, fondatore di Capital Innova, un’agenzia di comunicazione specializzata nel management di chef e talent legati al cibo. La novità è che non piacciono solo ai comuni mortali, ma sempre più aziende utilizzano in modo costante i progetti di Influencer Marketing. Ma come distinguere la fuffa, gli improvvisati, dai veri professionisti? Ecco qualche coordinata.
Food Influencer Marketing: i dati
Come dimostra la ricerca 2020 di ONIM – Osservatorio Nazionale Influencer Marketing – il numero di aziende che si affidano ai professionisti dei social sta crescendo. Ben il 14,9% delle aziende prese a campione hanno attivato oltre 10 progetti di IM e il 47,42% ha scelto di aumentare il budget dedicato a questo settore. Rispetto al 2019, sono quasi raddoppiate le aziende che riservano oltre il 50% del proprio budget dedicato alla comunicazione all’influencer marketing. Se nel 2019 erano il 5%, nel 2020 la soglia tocca l’8,4%, un aumento del 68% nel giro di un anno. Inoltre, il 47,42% afferma che nel prossimo anno aumenterà il budget per l’IM, mentre il 42,25% lo manterrà costante. Cresce la quota di marketer che remunera sempre gli influencer (passa dal 33,7% al 42,86%) e non si affida a semplici operazioni di invio campioni per operazioni spot. È un segno rilevante e che denota la volontà di garantire professionalità ai progetti. Tuttavia i progetti gratuiti restano, anche se passano da 11,3% a 10,28%.
Il canale privilegiato dalle aziende resta Instagram, a cui si uniscono TikTok e Twich. Per il 21,9% delle aziende la visibilità del prodotto resta l’elemento primario, ma sempre di più (8,2%) scelgono il focus sulla qualità come Branded Content principale e l’11,7% a progetti di ambassadoring. Il lockdown ci ha mostrato che sui social gli unici che lavoravano erano gli esperti di cucina. Le aziende hanno fatto il pieno di talent del mondo food, come è successo a Capital Innova. Perché la verità è che: «Attraverso il cibo parli di qualsiasi prodotto», spiega Antonelli.
Chi è e cosa fa un food influencer
Il food influencer – sia esso uno chef o un appassionato di cucina – cerca di consigliare i propri follower nell’utilizzo di prodotti e materie prime in maniera consapevole. Li indirizza nella spesa ed è oggi molto attento a evitare sprechi. L’ecosostenibilità conta molto. Parola d’ordine: non mentire. «Per capire se un food influencer è credibile basta analizzare la vita privata». E se le ricette più semplici come quella della Carbonara o della Torta di Mele ci hanno conquistati, ciò che fa la differenza è quel tocco in più, che aiuta noi comuni mortali a creare l’effetto wow. «Magari abbiamo cucinato lo stesso piatto per anni e poi arriva quel segreto che svolta la ricetta: è quello uno dei punti di forza dello chef influencer».
Di chef influencer ce ne sono tanti. Bruno Barbieri con un grande team alle spalle. Su TikTok Daniele Rossi ha conquistato un grande seguito grazie ai suoi video dove cucina senza parlare. Di contro, Federico Fusca ha conquistato migliaia di fan grazie al suo linguaggio fresco e amichevole. Durante la pandemia, quando tutti ci siamo concentrati sui capisaldi della cucina, molti cuochi hanno fatto sinergia, come Simone Finetti ed Ernst Knam in diretta su Instagram. «Una parte di chef sono scomparsi, anche perché c’era meno voglia di piatti gourmet. Gli unici che spendevano in pubblicità erano i player GDO, che volevano si comprasse pasta e farina: quindi gli chef dovevano aiutarci a cucinare bene quello che abbiamo sempre fatto». Giorgio Locatelli ha dimostrato che anche lo chef più restio ad usare i social può raccogliere tanto seguito grazie al team giusto. Pensavate davvero che dietro i post, i reel e le storie ci fosse solo una persona sola a far tutto? Niente di più sbagliato.
L’importanza del team
Durante il lockdown i food influencer con alle spalle un’agenzia dotata di settore commerciale hanno avuto un boost del 300%. Il business si è consolidato dopo i primi ritorni. «Ciò che funziona sono i format web: dopo le analisi del target, dei canali e delle strategie, si devono raccontare delle storie. E un influencer, da solo, non ce la fa». Il mondo dell’influencer è saturo. Fare solo product placement non basta e può essere controproducente. Per questo va costruito lo storytelling attorno all’influencer e non solo alla pubblicità. Il team ideale che concorre a questo obiettivo è composto da un autore, un social media manager, un social media strategist, un fotografo e un ufficio stampa. La squadra non è al servizio di un solo talent, ma lavora per una scuderia. Il costo quindi si suddivide e viene remunerato con la percentuale dei guadagni che l’influencer porta all’agenzia.
Perché ci piacciono (e ci fidiamo di loro)
Recenti studi hanno dimostrato che i consumatori si fidano degli influencer quasi fossero amici veri. Secondo Antonelli è un fenomeno simile a quello che ci porta a empatizzare con le grandi personalità sportive e con gli attori di Hollywood, capaci di portare al successo uno specifico indumento o prodotto. «Sta poi all’influencer creare un racconto che possa fidelizzare la fan base. Perché l’emulazione funziona fino a un certo punto». E molti influencer e talent hanno pagato amaramente le “scappatoie”, come quella di comprarsi i follower.
Attenti alla fuffa
Eppure sono in tanti – tra chef e food influencer – a veicolare solo “fuffa”. Per evitare di fidarsi delle persone sbagliate Antonelli consiglia di controllare il prodotto che vendono o promuovono. «I nostri talent non accettano a prescindere un brand. Ci teniamo a far sì che quel prodotto sia sostenibile per la loro carriera, in linea con i loro valori».
Il futuro per gli influencer
Dopo aver cucinato di tutto tra le mura di case, è tempo di uscire e di riappropriarci del territorio. «La Comunità Europea stanzierà molte risorse per il rilancio dei territori e torneremo a scoprirli attraverso il cibo. Si parla di percorsi del gusto, con cui regioni e comuni cercheranno di intercettare visibilità e viaggiatori. Gli chef dovranno imparare di nuovo a viaggiare, a testimoniare il territorio attraverso le abitudini culinarie dei luoghi».