Restaur-azione Ecco perché nessuno vuole più lavorare nei ristoranti

Prima della pandemia c’era la fila, ora non piace più e si moltiplicano le ricerche di personale che per la maggior parte restano inevase. C’entrano molti fattori, ma non sono solo economici. E richiedono una forte riflessione sul settore

Foto di LEEROY Agency da Pixabay

Ne stanno parlando tutti, nell’ambiente: ci sono sempre meno camerieri, sempre meno cuochi e sempre meno persone disponibili a lavorare nel settore dell’ospitalità.

La situazione è complessa: nel settore ristorazione, in 14 mesi, sono stati bruciati il doppio dei posti di lavoro creati tra il 2013 e il 2019, l’incertezza è diventata il sentimento prevalente e lo dimostra la riduzione del numero di nuove attività avviate nell’anno. Secondo la Fipe parliamo della metà delle aperture rispetto al periodo pre pandemia. La crisi non travolge solo l’offerta, ma influenza profondamente anche la domanda: i consumi degli italiani si sono fatti meno sofisticati, con la spesa alimentare domestica che non è riuscita a coprire nemmeno il 20% di quanto perso con lo stop a bar e ristoranti.

Il 97,5% delle imprese ha registrato nel 2020 un calo di fatturato. Per oltre 6 ristoratori su 10 la riduzione ha superato il 50% del volume d’affari dell’anno precedente.

Oggi l’84,3% degli imprenditori scommette su una ripresa del settore, subordinata però alla fine dell’emergenza. Secondo gli intervistati da Fipe-Confcommercio, il 2021 sarà ancora un anno di fatturati in calo, mediamente del 20%. Il 66% dei responsabili di grandi aziende della filiera (industria, distribuzione e ristorazione) prevede una ripresa non prima del 2022-2023, mentre il 27% pensa che solo nel 2024 ci sarà una vera inversione del trend.

Il tema occupazionale è quello più preoccupante: i settori “alloggio e ristorazione” hanno perso 514mila posti di lavoro, mentre tra il 2013 al 2019 ne avevano creati 245mila. 

Ma i posti di lavoro persi non dipendono solo da chiusure e contrazioni del mercato. Nonostante i locali siano molti meno rispetto all’inizio della pandemia, c’è un calo sensibile degli addetti disponibili ad entrare o a tornare in questo mercato, che sta rendendo complesso il ritorno alla normalità per gestori e ristoratori.

E se sui social si spara a zero sul reddito di cittadinanza e si sottolineano le paghe sempre troppo basse per questo genere di professioni, i motivi che hanno condotto a questa carenza di organico sono molti di più, e molto più complessi. Connaturati al tipo di lavoro, determinati dalla situazione contingente e dalle scelte che ha portato con sé un anno e mezzo di pandemia e di ristoranti chiusi e aperti a singhiozzo.

I nuovi poveri
Meglio un reddito di cittadinanza certo, una disoccupazione che prima o poi arriva, magari stando per qualche anno al sicuro a casa di mamma e papà, o meglio una paga minima, con l’affitto da pagare, lavorando più di 10 ore al giorno in luoghi non sempre accoglienti? Il problema che già prima della pandemia stava sempre più emergendo, è scoppiato in tutta la sua virulenza proprio durante questi mesi rinchiusi. Il lavoro in cucina e in sala è spesso non tutelato, poco protetto, retribuito male. Troppo spesso a fronte di un contratto part time vengono richieste infinite ore non pagate, troppo spesso la busta paga è un’opinione, e il lavoro richiesto è duro, su turni lunghissimi, e senza tutele. Migliorare questi aspetti del settore era una priorità pre pandemica, lo è sempre di più oggi.

I nuovi orari
La situazione contingente, a livello gestionale, è davvero complessa: i gestori, anche quelli molto attenti alle norme e molto ligi nell’evitare le pratiche che in questo settore sono da sempre considerate normali, tipo un orario “spezzato” che prevede 10-14 e 17-oltranza, sono in grande difficoltà in queste settimane in cui le regole cambiano velocemente e non c’è nulla di certo. Il coprifuoco alle 22 e l’impossibilità di servire al chiuso ha costretto molti a cambiare turni, accorciare o allungare orari a seconda del meteo. Incastrare tutto questo con un contratto normale è davvero complesso, e costringe a equilibrismi faticosissimi per garantire le aperture, soddisfare i clienti, non costringere agli straordinari e assicurare un presente sostenibile alla propria attività. Non è facile trovare persone così motivate e così flessibili, se non direttamente coinvolte nella proprietà del ristorante. Non è facile con il breve preavviso di qualche giorno ristrutturare la squadra e dare a tutti un orario stabile e duraturo sul lungo periodo.

I fuori sede
Soprattutto nelle grandi città universitarie, i camerieri erano soprattutto studenti, che per pagare l’affitto o mantenersi agli studi si dedicavano a questa attività, senza volerne poi fare una professione ma con l’intento di un lavoro stabile e da svolgere compatibilmente con gli orari delle lezioni. Con la didattica a distanza e la possibilità di tornare ai luoghi d’origine, risparmiando i costi dell’affitto, questa larga parte di giovani lavoratori non è più disponibile per bar e ristoranti.

I professionisti
Moltissimi professionisti di cucina e sala, soprattutto lavoratori dei grandi ristoranti stellati, degli hotel 5 stelle e dei locali di grande livello non si sono voluti fermare, cercando all’estero quello che in patria non era garantito. E inseguendo le strade delle aperture e dei vaccini, si sono trasferiti nei paesi che permettevano loro di continuare a lavorare, di non fermarsi, di proseguire nella loro carriera e nello sviluppo delle loro competenze. Una “fuga di fornelli” che ha spinto molti sulle rotte orientali, verso Qatar, Dubai, Emirati Arabi, dove di fatto la grande ristorazione ha avuto pochissimi momenti di stop e ha proseguito nell’accoglienza dei viaggiatori del gusto. E dove gli stipendi da favola permettono un sacrificio che ha anche grandi motivazioni economiche.

I nuovi giovani
C’è un altro fattore di cui tener conto nell’analisi. Ed è la minore predisposizione dei giovani che si approcciano al mondo del lavoro nell’accettare quello che per decenni è stata – semplicemente – la normalità. Entrare a far parte di questo mondo ha finora significato sacrificarsi per la causa. Era un patto non scritto ma evidente a chiunque abbia mai analizzato il settore. Turni lunghi, orari spezzati, impossibilità di avere una vita regolare, lavoro in giorni festivi: era tutto normale, tutto accettato, tutto sommessamente parte di una filiera disposta a sacrificarsi per il sacro fuoco dell’adrenalina che il lavoro in un locale porta con sé.

Oggi, con la sostenibilità al primo posto e le riflessioni durante i mesi del Covid, non è più così. E se già prima della pandemia i ristoranti più celebri al mondo stavano facendo una grande riflessione sul senso profondo del sacrificio che questo lavoro comportava, oggi più che mai questo pensiero è sempre più presente. Trovare il senso è sempre meno facile, e sempre meno giovani sono aperti e disposti ad abbandonare sull’altare della ristorazione la loro libertà.

Da qualunque parte lo si guardi, il problema è evidente e pervasivo, e serve una riflessione profonda e una ristrutturazione che parta dalle fondamenta per cambiare e ricostruire il settore.

Anche da parte di noi clienti: perché, esattamente come non possiamo voltarci quando compriamo un pomodoro sottocosto, fingendo di non sapere quando ha guadagnato e in che condizioni ha lavorato chi l’ha raccolto, allo stesso tempo non potremo fingere di non sapere quali sono i costi effettivi di quel ristorante dove ci sediamo a pranzo. Perché per pagare degnamente un cameriere, ed evitare che faccia 13 ore di lavoro al giorno, il costo del nostro pasto dovrà per forza adeguarsi.

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