Il suo libro su Dante Alighieri uscito in occasione del settecentesimo anniversario della morte di Dante, pur uscito da mesi, resiste ancora ai primi posti della classifica della saggistica. È appena andato in onda su Rai Storia il suo speciale su Napoleone in occasione del bicentenario del 5 maggio, acclamato, al solito, da pubblico e critica – uno dei rarissimi casi di programma per cui le persone si dicono felici di pagare il canone. Anche l’adorazione del suo pubblico non ha cadute, anzi il successo dell’ultimo meme che lo inquadra mentre imbraccia un fucile l’ha appena rinnovata. E adesso in libreria e in cima alle classifiche c’è anche il nuovo romanzo di Alessandro Barbero, “Alabama”, appena uscito con Sellerio. Siamo con un soldato del Sud degli Stati Uniti nel mezzo della Guerra civile americana. Non è ancora chiaro chi vincerà, mentre leggiamo il suo lunghissimo monologo, intervallato dalle considerazioni di una ragazza che gli sta chiedendo di raccontare ciò che ricorda. È chiaro che sa qualcosa e sta cercando una conferma, ma è chiaro anche quanto sia combattuta tra il desiderio di scoprire la verità e la speranza di essersi sbagliata. E noi lettori con lei. Il soldato ci fa simpatia, ma, allo stesso tempo, man mano che il monologo va avanti, capiamo che non ci farà affatto piacere quanto scopriremo di ciò che hanno fatto lui e i suoi compagni.
Uno storico ha a disposizione del materiale sconfinato quindi, se sceglie un momento preciso della Storia, deve necessariamente esserne affascinato in qualche modo. Perché, allora, la Guerra di Secessione?
In realtà il procedimento non è stato: «Voglio scrivere un romanzo sulla Guerra di Secessione e quindi comincio a informarmi su quello», quanto piuttosto il contrario, come del resto accade per quasi tutti i miei libri. Per un lungo periodo – anni e anni della mia vita – ho letto voracemente della Guerra Civile americana e con leggere voracemente intendo dire aver fatto arrivare un’infinità di libri dall’America, perché in italiano c’è pochissimo, mentre laggiù c’è di tutto: una bibliografia immensa. E, pian piano, mi sono orientato soprattutto verso la memorialistica che, come storico, è l’aspetto che ho sempre trovato più interessante, perché più dei libri che scriviamo noi, trovo, da sempre, interessanti le testimonianze di quelli che c’erano. E, inoltrandomi nella memorialistica, mi sono poi accorto che mi affascinava il mondo dei soldati semplici del Sud. Un Sud che non è quello di “Via col vento”, dei gentiluomini, dei piantatori, dei padroni di schiavi, ma il Sud della gente normale, dei bianchi poveri e, perfino, della “spazzatura bianca”, come dicevano e si dice tuttora.
Che mondo era e che cosa ne resta?
Era un mondo in guerra in difesa di quelli che sentivano come valori. E sono poi gli stessi che oggi votano Donald Trump, o almeno quelli che lo votano in buona fede, pensando difenda i loro valori e cioè: «Io voglio avere il diritto di tenermi il fucile in casa, nessun governo deve venirmi a dire che non posso». E all’epoca era: «Voglio avere i miei schiavi e nessun governo verrà a casa mia a dirmi che non posso averli». Il tutto nella convinzione di rappresentare la democrazia e la libertà americane, in un esercito dove, all’inizio, erano i soldati che eleggevano i loro ufficiali.
Cosa li ha appassionati di loro?
Prima di tutto il modo di parlare – ci sono certi modi di dire e proprio certe cadenze che alla fine mi entravano nella testa – e l’idea di scrivere un romanzo è nata proprio con l’obiettivo di riprodurre quella musica. Anzi, in un primo stadio “Alabama” era semplicemente l’ininterrotto monologo del protagonista, da cui venivano fuori mille personaggi, mille aneddoti e le mille caratteristiche di questa società rurale. Poi, a un certo punto, mi sono reso conto che non potevo mettere sotto il naso del lettore semplicemente un infinito monologo che non portava da nessuna parte, e lì è nata la decisione di orientarlo in una direzione, per arrivare al racconto della strage con cui si conclude il romanzo.
Non la interrompo, spero non l’accuseranno d’averlo anticipato.
La strage, nello specifico, l’ho inventata, ma ne sono accadute diverse, perché la risposta dei soldati sudisti al fatto che gli unionisti armavano i neri è stata effettivamente quella di non prendere prigionieri. E poi, inserita la strage, ho sentito il bisogno di creare il personaggio della ragazza che intervista il protagonista in quel controcanto che si trova in conclusione di ogni capitolo, e, attraverso di lei, provo a dire da subito al lettore che questo romanzo, apparentemente sconclusionato – molti mi han detto che, nei primi capitoli, si fa un po’ di fatica a capire dove si va a parare – in realtà ha una direzione. Anche se poi, come capita sempre, i personaggi crescono da soli, la ragazza mi è cresciuta fra le mani e alla fine la sua reazione a quello che sente è parte integrante del libro.
Questi soldati del Sud vivono in un razzismo che definirei “endemico”, nel senso che non sembrano neanche colpevoli di essere razzisti. Come si sfugge all’ambiente in questi casi?
Eh, non si sfugge tanto facilmente. Anzi, a essere sinceri già più di un lettore mi ha detto che, alla fine, questi soldati ti restano simpatici, anche se pensano e fanno cose terribili. Ed è la stessa cosa che provo io. Perché questo romanzo è anche un esperimento per cercare di capire come funziona una società che ha alcuni valori che noi riteniamo orribili, ma in cui, allo stesso tempo, le persone sono normalissime e quindi, in molti casi, simpatiche e perbene.
È un’operazione complicatissima, soprattutto in un momento come questo.
Quando c’è un cambiamento di valori bisogna difenderlo fortemente, perché non è mai scontato. In particolare, per quanto riguarda i rapporti fra – stavo per dire “le razze”, anche se noi in Europa non lo diciamo più, mentre in America sì che lo dicono e quindi, anche qui, c’è una grossa ambiguità nella nostra cultura sull’esistenza o meno delle razze perché non accettiamo che ci siano le razze, ma il razzismo sì – voglio dire che abolire lo schiavismo è un risultato della civiltà nel senso pieno del termine. Dove la civiltà è una conquista faticosa, che va continuamente difesa, spinta avanti, perché non viene naturale: la civiltà è l’opposto delle nostre pulsioni naturali.
Abbiamo imparato che la Storia non ha una direzione necessariamente “giusta”. Allo stesso tempo è difficile non pensare che in certi casi, come quello della Guerra civile americana, abbia vinto la parte “giusta”. Crederlo è solo un’illusione?
È chiaro che bisogna essere relativisti, da un lato, e al tempo stesso non esserlo. Perciò, quando si fanno questi discorsi, bisogna fare una specie di capolavoro dialettico. Dobbiamo essere relativisti nel senso che dobbiamo stare molto attenti a evitare quella pulsione, che è profonda e radicata nella civiltà occidentale, di dire che noi siamo migliori degli altri, noi siamo quelli civili e gli altri sono barbari. Adesso noi inorridiamo al fatto che i nostri antenati colonizzavano il mondo dicendo di portare la civiltà ai neri o ai gialli che sono inferiori, inorridiamo, però poi andiamo in giro per il mondo a “portare la democrazia” ad altri popoli. Abbiamo imparato la decenza di non dirgli in faccia: «Voi siete inferiori», però, in realtà, lo pensiamo. E quando un immigrato da qualche Paese povero musulmano, picchia la figlia perché non vuole che esca con i giovanotti, noi consideriamo che lui appartiene a una cultura “inferiore”. E da un lato dobbiamo stare molto attenti, perché è una tendenza che abbiamo avuto sempre, a volte con esiti spaventosi, quella di dire: «Noi abbiamo i valori giusti e gli altri sono inferiori». Dopo di che, bisogna riuscire a conciliare questa consapevolezza col fatto che quando siamo sicuri che certi valori siano superiori, allora bisogna effettivamente difenderli: quindi al papà marocchino bisogna davvero impedire di picchiare la figlia. E riuscire a farlo senza, appunto, sentirsi superiori, non è per niente facile.
Quindi meno male che ha vinto il Nord.
Dal nostro punto di vista meno male che ha vinto il Nord e meno male che la schiavitù è stata abolita, e possiamo anche avere il coraggio di dire che ci sono civiltà che invece la schiavitù la lodavano ma chissenefrega, in questo sbagliavano. Poi, questo non deve significare che il singolo soldato del Nord era una persona migliore del singolo soldato del Sud. Chiaro che questo ti porta anche ad affrontare problemi che ancora oggi non abbiamo risolto, perché è come dire: «Allora neanche il singolo soldato dell’esercito di Hitler non era peggio del suo avversario americano?». Come persona no, in effetti, però queste persone erano dentro un sistema spaventoso e anche questo va detto. Il sistema del vecchio Sud non era di per sé spaventoso, ma aveva questo aspetto che noi riteniamo ripugnante: la schiavitù. Per il resto era una società libera, democratica e così via. Quindi un po’ diversa dalla Germania nazista, ecco.
Questo discorso ci porta al dibattito molto attuale: guardiamo alla Storia passata come un’occasione per continui autodafé, perché tendiamo a condannare e a ragionare con i valori di oggi.
È ancora lo stesso atteggiamento presuntuoso e soddisfatto di sé che, cento anni fa, portava i nostri nonni a dire: «Noi bianchi siamo molto meglio dei neri», e oggi ci porta a dire: «Noi di oggi siamo meglio di quelli di cento anni fa». Non c’è alcuna differenza! L’unica novità è che quelli di cento anni fa non sono qui per sapere quanto li disprezziamo, e che, invece di giudicare altre civiltà contemporanee alla nostra, oggi giudichiamo altre civiltà precedenti alla nostra. Ma l’atteggiamento presuntuoso di giudicare gli altri è identico. E deplorevole. Poi, un altro aspetto è l’infantilismo di chi dice: «Siccome in questo libro, in questo film, in quest’opera d’arte, sono espresse idee che non condividiamo, allora lo aboliamo». Davvero è come il bambino che dice: «Brutto, non ti voglio più vedere!», una roba incredibilmente infantile.
Torniamo al personaggio della ragazza nel libro che, in qualche modo, è rappresentativo di chiunque voglia fare ricerca storica. Per chi si cerca la verità nella Storia? Lei lo fa per sé stessa, oppure lo fa per gli altri?
Sa che la stessa domanda me l’ha fatta l’editor della Sellerio? Ha letto questo romanzo e ha tentato eroicamente di farmi modificare o aggiungere alcune cose. Mi chiedeva di spiegare meglio perché lei fa questo, ma io alla fine non l’ho fatto perché, in realtà, non si può spiegare. Io lo so perché faccio quel mestiere lì: faccio lo storico perché si ha una spinta a farlo. Ma sarebbe una razionalizzazione incompleta dire: «Lo faccio perché voglio che tutti sappiano». La prima spinta è perché tu ti sei posto un problema e hai voglia di risolvere quel problema, esattamente come può fare un fisico o un matematico davanti a un problema nuovo che lo entusiasma, che lo fa vibrare dentro e che gli fa passare le notti in bianco fino a quando non ha trovato una possibile soluzione. La ricerca storica è la stessa cosa. Poi uno razionalizza e dice che fa parte di un patrimonio di conoscenze che appartengono a tutti, che migliorano la società e la cultura. Tutto vero, eh, però la spinta di partenza è che tu ti sei posto un problema e bruci dalla voglia di risolverlo.
Nei luoghi dell’Alabama di cui parla è mai stato?
No no, non ci sono mai andato e sono fermamente convinto che non bisogna andare nei posti se si sta scrivendo di com’erano quei posti nel passato: tu li devi vedere attraverso gli occhi di quelli che c’erano allora. Questa, ovviamente, è una deformazione professionale dello storico, che però è anche l’orgoglio di dire: «Io sono in grado di immaginarmeli quei posti, una volta che ho letto tanto, ma tanto, di quello che hanno scritto quelli che c’erano». Poi, da quando c’è Google Maps, uno può andarci anche virtualmente. Una volta sono andato a vedere la contea di Marengo in Alabama, ma alla fine il mondo è tutto uguale, per certi punti di vista. Si vede la solita cittadina americana insignificante e intorno prati e alberi che sembra di essere nel cuneese. Non cambia niente. I luoghi, da soli, nel nostro mondo civilizzato non rivelano quello che sono gli uomini che ci vivono o che ci sono vissuti.
Ogni tanto si dice che la Storia è un rifugio e che sia modo per sfuggire dalla realtà.
Quando si pone il problema in questi termini automaticamente lo si grava di qualcosa di negativo. Però, attenzione, nessuno legge romanzi o guarda film dicendo: «Così arricchisco la mia comprensione del mondo attuale» – magari se leggi un libro di sociologia sì, ma se leggi un romanzo o guardi un film di gangster o di cowboy lo fai per evadere – e questo è assolutamente legittimo, perché parte della nostra vita consiste nel cercare di vivere altre vite e di spostarci in altri luoghi. L’intera letteratura mondiale esiste per questo, fondamentalmente. E all’interno di questa letteratura c’è anche il romanzo storico, così come il film di ambientazione storica. Quindi io direi: sì, la passione per la Storia è un modo per vivere altre vite e altre esperienze, ma non lo considererei con deplorazione come un modo per sfuggire a una realtà in cui non ci si trova bene o non si vuole stare, non credo che sia così. Pare che il generale Eisenhower abbia passato la notte prima dello sbarco in Normandia leggendo un romanzo di cowboy, ma non è che stava evadendo dalle sue responsabilità!
Fino a qualche anno fa pensavamo di trovare nella Storia delle risposte per il futuro, mentre adesso mi pare che abbiamo capito che non può darci quel tipo di risposta lì.
Premesso che non ho dei dati, ma solo delle impressioni: indubbiamente la grande maggioranza delle persone non ha mai avuto un grande interesse per la Storia se non quando leggeva “I tre moschettieri” o guardava “Via col vento”, e va bene così. Nella cultura delle classi dirigenti, l’Ottocento-Novecento ha rappresentato un periodo in cui c’era più fiducia nel fatto che la Storia insegnasse: se stavi coi marxisti avevi fede che ci fosse una teoria che spiegasse la direzione della Storia e quindi ovviamente la Storia era centrale nella tua visione del mondo. Ma anche nella cultura liberale c’era questa idea, uno come Winston Churchill, per dire, faceva politica ad altissimo livello e al tempo stesso faceva lo storico, scriveva libri di Storia e non per evasione, in quel caso, ma perché era convinto che davvero la Storia insegnasse a governare il mondo. Dopo di che, come dice lei, oggi non crediamo assolutamente più che la Storia abbia una direzione sicura o delle leggi precise, e che quindi possa permettere di prevedere cosa succederà. In generale, però, che la Storia non sia del tutto inutile per capire come funziona il mondo e per prendere delle decisioni, questo io continuerei a sostenerlo, sia chiaro!
Lei ha raccontato spesso grandi imprese del passato, Napoleone, la scoperta delle Americhe o le guerre di Indipendenza. Volevo chiederle se quel tipo di impresa oggi è impossibile.
Non è semplice formulare una risposta, ma mettiamola così: oggi noi storici pensiamo che tutto sia Storia e quindi anche la casalinga che prepara la marmellata sta compiendo un gesto che ha una valenza storica, perché è parte di una civiltà, di un’epoca e così via. Invece, in passato, la Storia è sempre stata considerata in relazione alle grandi imprese, perché quello che valeva la pena di raccontare o di ricordare erano i grandi uomini e le grandi imprese. E credo di poter dire che i grandi uomini e le grandi imprese erano soprattutto quelli che facevano le guerre e vincevano le guerre: perché se uno va a vedere quelli che son passati alla Storia come “il Grande” o “Magno” – Alessandro Magno, Carlo Magno, Federico il Grande – o anche quelli il cui nome è talmente significativo che non c’è neanche bisogno di aggiungere “il Grande” e basta dire “Cesare” o “Napoleone”, anche loro, in realtà, hanno fatto tantissime cose, ma la loro grandezza agli occhi del popolo è innanzitutto che abbiano vinto grandi guerre o grandi battaglie. Oggi noi viviamo in una fase storica in cui l’Occidente fa la guerra in un altro modo, più indiretto, più frammentato, e quindi di grandi condottieri non si parla neanche più e va bene così, probabilmente. Però chissà finché dura. Spero di non vivere fino all’epoca in cui ci sarà una grande guerra in cui un grande generale cinese conquisterà gli Stati Uniti, ma nessuno ci dice che non succederà fra cent’anni, ecco. Non bisogna illudersi che le cose durino per sempre. Dopo di che, quello che è chiaro è che i grandi personaggi storici sono quelli che passano alla storia perché hanno affrontato una grande crisi e hanno saputo, non dico risolverla, ma quantomeno tenerle testa e farci fronte. Quello che voglio dire è che il fatto che Franklin Roosevelt o Churchill siano passati alla storia come dei grandissimi politici, dei giganti del Novecento, non vuol dire che non fossero pieni di difetti, che non avessero fatto un sacco di sbagli, che molti loro contemporanei non li considerassero dei buffoni (come a qualunque politico succede). Però si son trovati: Roosevelt davanti alla grande crisi del ’29 e si è inventato il New Deal, e poi davanti alla Seconda Guerra Mondiale e ha fatto in modo di pilotare gli Stati Uniti in guerra dalla parte giusta, e Churchill si è trovato a pilotare la Gran Bretagna nel momento in cui doveva resistere. Nessuno esclude che in futuro si dica «Joe Biden, uno dei più grandi presidenti americani di tutti i tempi, che ha cambiato la storia del mondo, perché dopo 40 anni di Reaganomics ha spiegato al mondo che il liberalismo porta alla povertà e che invece ci vogliono le tasse e l’intervento statale: un nuovo Roosevelt!». Io non lo escludo mica, potrebbe succedere benissimo, e tutti dimenticheranno che Joe Biden è arrivato a 70 anni considerato da tutti un gregario. Ci vuole l’occasione oltre all’uomo giusto.
Quindi dobbiamo augurarci che non passi attraverso le guerre.
Certo. Infatti, tra tutte quelle che abbiamo detto, forse il New Deal di Roosevelt è l’unica cosa che ci permette di aggiungere un “grande” a un personaggio storico senza passare attraverso la guerra.