I 6 giorni del nonnoLa guerra israelo-palestinese è una storia di famiglia (e non ne parlo su Twitter)

Mio figlio non mi chiede del conflitto in corso, mica sta sui social, ma vuole sapere del bisnonno importante. Siccome non sono matta, non posto su Israele, ma ricordo cosa diceva mia nonna, mentre mio fratello non risponde al telefono

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«Mamma, che cos’è la questione palestinese?». Scherzo, non siamo mica su Twitter dove bambini di 36 mesi fanno domande di purissima intelligenza, dove i genitori poverini sembrano cretini – genitori che lo scrivono, che sembrano cretini – e oddio mio figlio ha squarciato il velo di Maya e non ha nemmeno la presa a pinza.

Mio figlio non mi ha mai chiesto che cosa fosse la questione palestinese, ma mi ha chiesto chi era mio nonno. È in quel periodo della vita dove vuole sapere chi siano e cosa facciano i parenti di tutti, si è inventato di avere dei cugini, penso anche che ci parli quando crede di non essere visto. Crede, poverino.

Sono forse io titolata a parlare di Israele? Certamente, ma non sono mica matta. Non è un racconto immedesimabile il mio, se non per generali sentimentalismi e doppie morali.

Io ho capito chi era mio nonno a scuola, sul sussidiario delle elementari c’era una sua foto, una foto che avevo anche a casa (giuro che c’era davvero, lo so che sembro una cretina di cui sopra – cosa che non escludo a priori – non so per quale motivo avessi un sussidiario delle elementari che arrivava fino agli anni settanta, che avanguardia), e quando l’ho detto alla maestra che c’era mio nonno sul libro, beh, non me lo ricordo cosa mi avesse detto ovviamente, però ricordo che ero proprio orgogliosa, che famiglia importante, che eroe, ma perché questa maestra non mi chiede un autografo, certamente adesso tornerà a casa e racconterà ai suoi figli che in classe ha la nipote di una persona importante, un grande generale, che maestra fortunata, le daranno certamente un aumento. Ovviamente, non è successo niente di tutto questo, se non nella mia testa.

Ho capito che qualcosa non andava al liceo, dove i giusti si sedevano dalla parte della Palestina, la kefiah stava molto bene a tutte le ragazze – Bella Hadid, lo so che mi leggi – e quindi non avevo poi tanta voglia di parlare della Guerra dei sei giorni. All’interrogazione presi un 4, la sapevo, ovviamente, per scienza infusa, ma che mi importava, io non solo la sapevo quella cosa lì, io ero quella cosa lì.

Andando avanti negli anni, principalmente per pigrizia e per paura di non essere dalla parte dei giusti, ancora prima del politicamente corretto di cui evidentemente ho avuto premonizione, ho voluto vivere la storia con attitudine familiaresca e sentimentale, un poco applicabile libro Cuore a una guerra infinita.

Ora, io a mio figlio cosa dovrei raccontare, del grande generale che in sei giorni ha vinto una guerra mettendoci meno di Dio nella creazione del mondo – e se in sei giorni il bisnonno vince una guerra, figlio mio, tu puoi farcela a capire come si allacciano le scarpe in meno di una settimana – oppure dirgli che il bisnonno era una persona cattiva con il sangue sulle mani, che «to aim and hit, you need one eye only, and one good finger»?

Le colpe dei padri ricadono ancora sui figli? Quanto è spaventoso? Ma è pure spaventoso pensare in continuazione al fatto di essere nati dalla parte giusta del mondo, e star qui a ben pensare a chi abbia ragione e chi torto. Mia nonna diceva che non sarebbe finita mai, che la Palestina non è Hamas e che Netanyahu non è Israele. Intanto mio fratello non mi risponde al telefono da una settimana.

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