«La presidenza italiana del G20 ha come priorità un approccio One Health che permetta di preservare la sicurezza umana, animale e ambientale». Lo ha detto il presidente del Consiglio Mario Draghi, al termine del Global Health Summit tenuto ieri a Roma.
«La maggior parte delle malattie infettive sono causate da agenti patogeni derivati dagli animali. E la loro comparsa è causata da deforestazione, sfruttamento della fauna selvatica e altre attività umane. Per questo sarà fondamentale un’efficace azione di protezione ambientale», ha aggiunto il premier certificando l’impegno dell’Italia nel rispetto dell’ambiente.
La transizione ecologica è una priorità non più prorogabile e Roma sta lavorando, al pari degli altri Paesi dell’Unione europea e del G20, agli obiettivi di decarbonizzazione previsti dagli accordi internazionali. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) stanzia quasi 70 miliardi di euro per “Rivoluzione Verde e Transizione Ecologica”, cioè la seconda delle sei missioni in cui è suddiviso il documento: 25 miliardi andranno a transizione energetica e mobilità sostenibile, 22 all’efficienza energetica e riqualificazione degli edifici, 15 alla tutela del territorio e della risorsa idrica e quasi 7 ad agricoltura sostenibile ed economia circolare.
Le cifre sono enormi, ma non hanno evitato al governo critiche sulle destinazioni di questo tesoretto. In particolare, il Pnrr sembra fare poco affidamento sulle energie rinnovabili, e resta troppo ancorato ai combustibili fossili.
Il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani non ha mai negato il ruolo che ricoprirà il gas nei prossimi anni rispetto al fabbisogno energetico italiano, e ha definito «un’impresa epica» il target fissato dall’Unione europea di produrre il 72% dell’energia con fonti rinnovabili al 2030. Target peraltro indispensabile per l’Italia, se si vuole raggiungere l’obiettivo di decarbonizzazione al 51% al 2030.
«Il problema del Pnrr è che indica un obiettivo di decarbonizzazione senza che questo appartenga in alcun modo a strategie o policy nazionali pubbliche concordate a livello europeo o internazionale», fanno sapere in una nota congiunta le principali associazioni e organizzazioni ambientaliste del Paese, dal Wwf a Greenpeace fino a Legambiente, Kyoto Club e Transport & Environment.
Così concepito, il Piano rappresenterebbe un’occasione sprecata per proiettare la Penisola tra i leader nella rivoluzione verde in Europa: non sarebbe significativo per il clima, non riuscirebbe a identificare nei settori della decarbonizzazione il volano per la ripresa economica sostenibile, non sarebbe neppure incisivo nell’allocazione delle risorse e nelle riforme per innovare i settori pilastro della transizione ecologica.
Secondo Matteo Leonardi, direttore esecutivo del think tank Ecco, che si occupa di energia e cambiamento climatico, «il Piano deve passare dalle evidenze scientifiche ed essere coerente con gli scenari di decarbonizzazione ai quali le policy nazionali non sono ancore allineate. Manca una visione forte per la decarbonizzazione e per i progetti significativi nelle flagship europee: rinnovabili elettriche e i relativi sistemi di accumulo, elettrificazione dei trasporti, efficienza energetica negli edifici».
Un esempio macroscopico è quello delle rinnovabili: «Il Piano – dice Leonardi – in tutta la sua durata realizza circa il 60% di quello che l’Italia dovrebbe realizzare in un solo anno in termini di obiettivi climatici. Questo perché comunque il documento non va contro le norme europee, ma un buon piano per l’Europa, in termini tecnici, non è detto che sia un buon piano per l’Italia per quanto riguarda la decarbonizzazione del Paese».
È evidente però che la transizione energetica può essere solo un percorso, non un evento isolato. E in questo percorso l’affrancamento da gas e petrolio non può avvenire in un giorno. Il Pnrr da, per esempio, molto spazio a un vettore energetico assolutamente adeguato per ridurre l’impatto ambientale, come l’idrogeno – qui andranno 3,4 miliardi di euro.
Solo che l’idrogeno ha un futuro non ancora inquadrato e definito, difficile da progettare sul lungo periodo. È per questo che, secondo la comunità scientifica, sarebbe stato più conveniente puntare con maggiore insistenza sulle fonti rinnovabili, sull’efficienza energetica in tutti i settori, sull’elettrificazione dei trasporti.
C’è chi, come l’ingegnere ambientale Stefano Caserini, ritiene che lo spazio riservato all’idrogeno sia però sproporzionato: «A mio avviso – dice a Linkiesta – c’è un’enfasi eccessiva su questo elemento rispetto alle rinnovabili. L’idrogeno può essere un vettore energetico che serve in un sistema decarbonizzato ma prima del vettore c’è la fonte di energia, che per l’Italia deve essere il Sole, e in parte il vento. Quindi il fatto che la parola idrogeno compaia quasi un centinaio di volte nel documento italiano mentre 78 volte energia rinnovabile e meno di 10 volte solare/fotovoltaico mette in secondo piano il ruolo di questa fonte di energia. D’altra parte, la decarbonizzazione si fa con le energie rinnovabili: il ruolo dell’idrogeno, rispetto a queste ultime, è marginale».
Come spiega Caserini, non esistono scenari che comprendano l’uso di combustibili fossili per arrivare ai risultati richiesti dall’Accordo di Parigi. «È chiaro a tutti che la transizione ecologica deve essere tale: non possiamo continuare a servirci delle fonti fossili come ai livelli attuali. L’ha attestato anche l’Agenzia europea dell’energia (Iea), che ha sempre sottostimato l’andamento delle rinnovabili, sottolineando che ormai non c’è più spazio per nuove infrastrutture di gas».
Secondo il direttore esecutivo dell’Agenzia Internazionale per l’Energia c’è una corsa ad avere economie moderne e pulite per cui non chi non si muoverà in quella direzione sarà penalizzato. Non è un caso che l’Agenzia abbia pubblicato un rapporto – dal titolo “Net Zero by 2050: a Roadmap for the Global Energy Sector” – in cui indica ai governi le linee guida da seguire per decarbonizzare il comparto energetico e centrare l’obiettivo delle emissioni zero entro il 2050.
Il documento prevede lo stop alla produzione di automobili a combustione interna entro il 2035, prevede (dal 2030) l’installazione ogni anno di impianti eolici e fotovoltaici pari a quattro volte la potenza installata nel 2020, e chiede di interrompere l’apertura di qualunque nuova miniera di carbone o pozzo da cui estrarre petrolio o gas naturale.
Proprio il gas, che rappresenta uno dei nodi principali del Piano, secondo il ministro Cingolani è la fonte d’energia che farà da ponte in questa transizione, fin quando non sarà possibile una svolta green vera e propria.
«Darà stabilità alla rete elettrica: un sistema basato su eolico e solare è per definizione discontinuo. Se non ci sono sole e vento, non c’è energia. In più il gas emette molta meno CO2 rispetto al carbone, che è il nostro nemico numero uno», ha spiegato il ministro della Transizione ecologica meno di un mese fa.
Ma la transizione ecologica, per essere davvero tale, dovrà investire sulla capacità di immagazzinare l’energia prodotta dalle energie rinnovabili (soprattutto eolico e solare), uno dei fronti che si sta dimostrando più significativo nell’evoluzione intelligente della rete di distribuzione. Questo diventa possibile incentivando l’implementazione di sistemi di stoccaggio sempre più efficienti, in grado cioè di immagazzinare l’energia elettrica prodotta quando è più conveniente o quando c’è abbondanza di fonti rinnovabili per usarla quando serve.
La posizione del ministro non si concilia con alcune indicazioni di parte della comunità scientifica, che considera il gas ormai troppo inquinante per rispettare gli obiettivi comuni di decarbonizzazione.
L’Agenzia internazionale dell’energia, ad esempio, spiega che le nuove stime implicano un ripensamento delle strategie attuali delle compagnie oil&gas, come Eni, e delle infrastrutture ingegneristiche e di trasporto dei combustibili fossili, come Sapiem e Snam. Inoltre suggerisce di terminare la vendita di caldaie a gas, a livello globale, entro il 2025: in questo caso il “super bonus” per l’efficienza energetica, che include incentivi pubblici per nuove caldaie a gas, risulta disallineato agli obiettivi climatici. Quindi giudica il Pnrr italiano disallineato rispetto agli scenari di decarbonizzazione.
Ma lo stesso Cingolani ha spiegato, in un’intervista al Corriere della Sera che non ci sono soluzioni facili, perché le conseguenze delle scelte energetiche hanno ricadute – di breve e di lungo periodo – anche sull’economia, sul mercato occupazionale, sulle imprese: «Tutti devono capire che la sostenibilità ha dei costi, che non sono solo economici. Se si rifiutano la cattura delle emissioni, l’idrogeno grigio da metano perché produce troppa CO2, il nucleare perché è pericoloso, allora alla fine un’altra risposta va trovata. Anche perché credo che nessuno sia così folle da pensare che la risposta sia la decrescita: non si può chiedere alle persone di perdere il lavoro perché tutto dev’essere verde. La sostenibilità è sempre un compromesso, non può essere un valore assoluto. Dunque deve mediare tra istanze diverse».
Inoltre, al netto delle critiche, il Pnrr è sicuramente molto importante ma non è l’unico strumento che consentirà di intervenire nel settore energetico. «Come tutti i piani – spiega l’ingegnere ambientale Caserini – neanche questo può accontentare tutti, vista la sua complessità. Ciò che però deve passare è che dobbiamo impegnarci in una strategia di lungo termine, ad esempio facendo capire ai cittadini che nel giro di venti anni dovranno cambiare i loro vecchi sistemi di riscaldamento domestici. Questo messaggio ancora non riesce ad arrivare, e non ci aiuta a comprendere fino in fondo che entro il 2050 dovremo fare a meno dei combustibili fossili».