Il Movimento cinque stelle, il partito-Belfagor, cioè un fantasma della politica, stavolta non ha nemmeno colpa. Nella commedia degli equivoci andata in scena a Roma tra frizzi e lazzi il protagonista assoluto è stato il Partito democratico. Ha fatto tutto da solo. In fondo i grillini giocano la carta (che sarà pure sgualcita ma è pur sempre una carta) di Virginia Raggi, e restano altri due anni a co-governare il Lazio con relativi benefit di vario tipo.
Il Partito democratico invece ha azzoppato il cavallo migliore (Nicola Zingaretti) e manda in pista quello di riserva (Roberto Gualtieri). La Raggi e anche Carlo Calenda ringraziano.
Intendiamoci, i grillini hanno barato, certo: mercoledì scorso Luigi Di Maio – che non si sa a che titolo conduca queste trattative – aveva dato a Francesco Boccia, il Talleyrand del Partito democratico, l’ok su Nicola Zingaretti alle sue condizioni (che cioè restasse presidente della Regione fino a settembre così da evitare uno schizofrenico election day): solo che il ministro degli Esteri non ha mai una parola definitiva – e c’è da avere paura se si pensa che costui tratta con Haftar e Al Serraj – e infatti il suo beneplacito all’operazione Zinga è durato lo spazio di pochi giorni, il tempo sufficiente però per ringalluzzire Letta e Boccia, che rischiano di passare alla storia come le due cime dell’ingenuità.
Non c’è bisogno di ripetere qui ciò che ha scritto Francesco Cundari su Linkiesta a proposito di una folle “strategia” basta sull’affidarsi all’inesistente leadership di Giuseppe Conte ma bisogna invece chiedersi se nel Partito democratico non ci sia qualcuno che abbia lavorato per un esito infausto della vicenda per indebolire Enrico Letta o come minimo non lo abbia aiutato a condurla dignitosamente in porto. Lo stesso Nicola Zingaretti ha svolto un ruolo a prima vista incomprensibile: settimane e settimane passate a negare con nobili motivazioni istituzionali e politiche la scesa in campo a Roma per «non tradire la mia comunità durante la pandemia».
Poi però, pressato dal Nazareno, eccolo improvvisamente pronto a “tradire” la medesima comunità purché non vi fosse l’election day, con un ragionamento iper-politicista e ben poco istituzionale.
Nemmeno i suoi amici hanno mai ben capito se “Nicola” volesse davvero correre a Roma o no: l’ipotesi più probabile è che il dubbio lo abbia attanagliato per davvero nella sua intima dimensione umana, similmente d’altronde alle lacerazioni personali durante l’esperienza di segretario del Partito democratico quando ogni tanto minacciava di dimettersi (e infine lo fece, disgustato).
Il sospetto che sia partito un primo missile, per il momento innocuo, verso la nuova leadership del Partito democratico non si può escludere, dati i precedenti: nel senso che se a Letta (che comunque è certo che Gualtieri sarà il prossimo sindaco di Roma) dovesse andar male, nei giorni successivi non potrebbe stare sereno.
E nella grande commedia umana di questi giorni, nel silenzio inquietante di tutti i big che forse prevedevano l’incartarsi della situazione – tutti spariti, anche Goffredo Bettini, peso massimo nelle vicende romane da 40 anni – è rimasto stoicamente in piedi quel Gualtieri bloccato in anticamera in attesa delle decisioni altrui e che solo quando tutto è finito si è finalmente candidato a sindaco: «Si è visto che Roberto è un grande mediatore», ci ha detto il suo braccio destro Claudio Mancini.
Sarà, però l’ex ministro dell’Economia dovrà (ma come?) scrollarsi di dosso l’immagine di essere il sostituto di Zingaretti, costruendo piuttosto in fretta un’immagine “calda” che non gli appartiene né sotto l’aspetto caratteriale né sotto quello della storia politica, giocandosi bene la carta migliore che ha, quella della competenza di uno che si è seduto alla famosa scrivania di Quintino Sella in costanza di un mare di finanziamenti che pioveranno sulla Capitale per effetto del Recovery plan.
La difficoltà più grande per Gualtieri però sarà tutta politica. Ed è insita nella assurda linea che il Partito democratico sta seguendo a Roma, una linea che prevede un accordo più o meno esplicito con Virginia Raggi: chi va al ballottaggio prende i voti dell’altro.
Un agreement che inevitabilmente tarperà le ali di Gualtieri al primo turno, visto che sarà estremamente complicato attaccare frontalmente la sindaca con la riserva mentale di votarla se andrà al secondo turno: ergo, l’arma migliore (cioè l’attacco duro a una sindaca che ha governato pessimamente) sarà spuntata. Un capolavoro.
Senza dire che il vero anti-Raggi a questo punto sarà un Carlo Calenda che dovrebbe essere contento della piega presa dagli avvenimenti. Il primo atto della commedia umana che va in scena a Roma finisce così, con toni farseschi. Ma al Nazareno c’è poco da ridere.