Di questo passo arriverà presto il giorno in cui tutti noi che ce ne occupiamo con passione dovremo deporre la penna e alzare le mani, accettando il fatto che le contorsioni del Movimento 5 stelle sono gli ultimi sussulti di un’agonia ormai irreversibile, e che di conseguenza continuare a occuparsene, fosse anche solo per sghignazzarne un po’, rischia di sconfinare nell’accanimento. Ma non è questo il giorno.
Dalla lite di condominio con Davide Casaleggio sulla bolletta di Rousseau agli inconcludenti pensierini di Giuseppe Conte sul futuro della politica globale, si capisce quanto sia vicino il momento in cui anche il pubblico più fidelizzato, semplicemente, non ne potrà più, e pure io dovrò rassegnarmi. Ma non è questo il giorno.
Il tentativo contiano di porsi a capo di una forza politica in via di decomposizione – simile allo sforzo di scalare un gigantesco budino, e dagli effetti analoghi – ha raggiunto infatti proprio ieri una delle sue vette più alte, e sarebbe un peccato non darne conto come merita. Cominciamo dunque con un brevissimo riepilogo dei retroscena precedenti.
Da tempo, come tutti sanno, il Partito democratico è impegnato in un serrato corteggiamento dell’Avvocato del popolo, giudicato l’unico capace di garantire lo stabile approdo del Movimento 5 stelle nel centrosinistra. Lungo questa strada si stagliava però l’ostacolo delle elezioni amministrative, e in particolare delle comunali di Roma, dove anche i più accaniti sostenitori dell’abbraccio con i grillini, che hanno avuto il coraggio di definire il capo del governo che ha varato i decreti sicurezza un punto di riferimento fortissimo per tutti i progressisti e Beppe Grillo un argine al populismo, non se la sono sentita di definire Virginia Raggi una buona sindaca. A tutto c’è un limite.
Per questa ragione i democratici si sono rivolti al loro fortissimo punto di riferimento – del resto, si saranno detti, a cosa servirebbe altrimenti disporre di un leader così autorevole? – e quello, in purissimo stile contiano, ha fatto loro capire che subito-subito no, dopodomani neppure, ma insomma, al momento opportuno, ci avrebbe pensato lui, e Raggi non avrebbe potuto fare altro che ritirarsi.
E così gli strateghi del Nazareno, tanto sotto la segreteria di Nicola Zingaretti quanto sotto quella di Enrico Letta, sono andati avanti fiduciosi, tessendo la trama del grande accordo sulle amministrative, convinti che all’ultimo momento anche l’inciampo – e che inciampo – piazzato lungo la strada verso la capitale sarebbe stato rimosso.
Il tempo passa, le amministrative si avvicinano e Raggi non dà il minimo segno di volersi ritirare, anzi, ma le rassicurazioni contiane non sono meno perentorie. Perché, come hanno scritto tutti i giornali fino a qualche settimana fa, se anche la sindaca non dovesse cedere, Conte è più che deciso a metterla con le spalle al muro, minacciando da parte sua uno strappo clamoroso: appoggiare pubblicamente il candidato del Pd.
Forti di tali rassicurazioni, negli ultimi giorni al Nazareno si erano ormai convinti che la questione fosse risolta: il candidato sarebbe stato Zingaretti, che, per evitare un cortocircuito con la politica di alleanze da poco inaugurata alla Regione Lazio (e il rischio di perdere anche quella dopo le sue dimissioni), aveva posto come condizione proprio l’intesa con i grillini, perlomeno nelle forme di un solido patto di non belligeranza.
Fatto sta che ieri pomeriggio Conte dichiara alla Stampa quanto segue: «Il Movimento 5 Stelle su Roma ha un ottimo candidato: si chiama Virginia Raggi, il sindaco uscente. Il Movimento l’appoggia in maniera compatta e convinta, a tutti i livelli. Virginia sta dando un nuovo volto alla città e dopo una fase iniziale in cui la sua amministrazione ha dovuto dare segni di discontinuità con le gestioni del passato e ha dovuto tanto seminare, da un po’ di tempo si iniziano a vedere i chiari frutti di questo intenso lavoro e i romani se ne stanno rendendo conto ogni giorno di più».
Notate la delicatezza di non soffermarsi sulla misteriosa identità dei passati gestori, poi proseguite a leggere con me: «Dispiace che a Roma non si siano realizzate le condizioni per pianificare con il Pd una campagna elettorale in stretta sinergia. Non so chi verrà indicato dal Pd come candidato ufficiale e rispetteremo le loro scelte. Ci auguriamo però che la loro decisione non metta in discussione il lavoro comune che da qualche mese è stato proficuamente avviato a livello di governo regionale, che merita di essere portato a termine fino alla fine della legislatura nell’interesse di tutti i cittadini della Regione».
Fino alla fine della legislatura, cosa che ovviamente non sarebbe possibile se l’attuale presidente si dimettesse per correre da sindaco. Apprezzate anche qui il tatto con cui, senza far nomi, si mette in chiaro l’essenziale.
E infine, il colpo di genio: «La campagna elettorale che attende Roma sarà una sorta di primaria nel nostro campo, rispetto al campo del centrodestra. Dobbiamo agire in modo intelligente e fare in modo che in caso di secondo turno il dialogo privilegiato del Movimento con il Pd possa dare i propri frutti». Uno schema che metterebbe il candidato del Pd nell’assurda posizione di portatore d’acqua. Perché è ovvio che il giudizio sull’amministrazione uscente sarà il cuore della campagna elettorale, e schierarsi a sua difesa – o “non contro” – sarebbe un azzardo ai limiti della temerarietà: perché chi sarà d’accordo, proprio per questo tenderà a votare Raggi; e chi non lo sarà, proprio per questo non voterà chi la difende.
In ogni caso, pochi minuti dopo l’endorsement contiano a favore di Raggi, l’ex ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha annunciato la sua decisione di correre alle primarie del 20 giugno per la scelta del candidato sindaco del centrosinistra, ricevendo subito il retweet d’incoraggiamento di Letta, vale a dire del segretario che appena insediato – a metà marzo – ne aveva bruscamente bloccato la candidatura, per tenerlo poi un mese e mezzo a bagnomaria.
Vedremo quanto una simile partenza si rifletterà sui risultati delle elezioni per il Campidoglio e sulle amministrative in generale. Quello che però appare chiaro sin d’ora, oltre ogni ragionevole dubbio, è che la fantomatica leadership di Conte, nel Movimento 5 stelle, non è in grado di decidere alcunché. Ed è tutto da vedere se l’Avvocato del popolo riuscirà almeno a far eleggere se stesso a capo del movimento, o di quel che ne resterà. Personalmente, dovendo fare una previsione, direi che l’esito più probabile è la completa liquefazione del budino nel giro di qualche mese, e una candidatura di Conte nel 2023 da “indipendente populista” nelle liste del Partito democratico.
La paradossale lezione di tutta questa incredibile vicenda è che l’aspirante leader dei cinquestelle si è dimostrato del tutto ininfluente nelle scelte del suo partito, ma decisivo nel determinare le scelte del Pd.