La Candidata è pronta. Se le cose stanno come indicano tutti i segni astrali di questa fase politica, a correre per Palazzo Chigi sarà Giorgia Meloni e non Matteo Salvini: sarebbe una delle tante novità della seconda parte di questa stranissima legislatura, iniziata nel segno del capo leghista e del M5s ed evolutasi poi in quello di Mario Draghi e, appunto, della leader di Fratelli d’Italia. Già, Giorgia Meloni, come una farfalla leggera però dannatamente sola. Senza uno straccio di classe dirigente («Ho 30 bravissimi parlamentari»: ecco, appunto, uno ce ne hanno bravo, Guido Crosetto, che non è parlamentare). Leader sì, ma per fare cosa, esattamente? I “meloniani” dovrebbero sostituire i “draghiani”? Qui casca l’asino: sulla politica, la competenza, la visione. Con un rischio serio, come ci dice Sofia Ventura: «Se sarà coerente con la sua prospettiva integralista e anti-immigrati, con corollari vari, c’è da preoccuparsi: i suoi modelli sono l’Ungheria e la Polonia». Da rimpiangere i decreti Salvini?
Ma andiamo con ordine. Qualche volta accade che sia un libro a fare da turning point, a segnare un discrimine fra un prima e un poi, insomma a fare da detonatore di un certo fenomeno. E pare questo il caso. Domani esce in libreria “Io sono Giorgia”, a quel che si è già letto un libro ambizioso e ben scritto, anche grazie a ghostwriter brillanti penne del giornalismo, per una grossa operazione-simpatia tesa a svelare il volto di una donna che si è fatta da sola, a partire da un’infanzia non facile, e che poi ha presto imparato a navigare giovanissima nelle acque della politica come un vecchio democristiano: per dirne una, a 29 anni riesce a farsi eleggere vicepresidente della Camera lasciando al palo diversi pesi massimi di Alleanza nazionale come un gatto che si intrufoli in una gabbia di leoni e ne rubi il piatto di carne. Senza togliere nulla al privato, è evidente che di Meloni interessano, almeno qui, gli aspetti politici, ivi comprese le riflessioni sul passato almirantiano della giovane iscritta al Movimento sociale oggi orgogliosa di sedere nella stessa stanza del padre politico. Ma soprattutto intrigano gli indizi sui suoi progetti.
Nell’intervista molto partecipata, diciamo così, che le ha fatto Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera, alla domanda su quale sia il suo obiettivo, la leader di Fratelli d’Italia ha risposto con un’apparente banalità: «Andare al governo». Frase che va tradotta così: «Andare a palazzo Chigi». Non era scontato. Perché Giorgia Meloni è istintivamente, caratterialmente, politicamente un personaggio di opposizione. È stata educata così. La sua è una cultura politica, per ragioni storiche facilmente intuibili, estranea all’idea del governo.
E infatti – lo si accennava prima – tutto ha fatto Giorgia tranne che costruire una squadra o aprire FdI a competenze esterne: An almeno chiamò a sé vari ex democristiani, di seconda fila certo, ma pur sempre avvezzi a una certa idea di governo, o, meglio, di sottogoverno: la Meloni non ha non diciamo un Domenico Fisichella – ché la cultura non pare esattamente il suo punto forte – ma neppure un Publio Fiori. Guardate la spaventosa assenza a Roma, città da sempre più o meno striata di nero, dove FdI non trova uno straccio di candidato sindaco, o a Milano o a Napoli (idem), mentre nel Lazio (come era stato in Emilia e in Toscana) si fa largo un leghista, Claudio Durigon, che sarà forse insidiato dal Fratello d’Italia Marco Lollobrigida, uno dei volti televisivi del corso meloniano.
Tutto questo perché la giovane leader di FdI è una solitaria (appunto, nella vita ha fatto tutto da sola) e non sa fare squadra. E questo è un problema. Non c’è nemmeno più il Berlusconi dei tempi d’oro che la foraggiava di mezzi e di Daniela Santanché per tagliare la strada al nemico Gianfranco Fini. È lei contro tutti. A partire da Matteo Salvini – l’amalgama davvero non è riuscito – che lei intende rispedire al Nord come una volta mentre FdI si prende il Centro e soprattutto il Sud. Salvini è il suo avversario, ora. Deve sgraffignare alla Lega voti importanti, non bastano quelli già rosicchiati ai pentastellati cadenti. Sulla competizione corpo a corpo lei è forte quanto lui, che però dispone di un gruppo di governo molto migliore, da Giancarlo Giorgetti a Massimo Garavaglia.
Pur in un’epoca in cui le ascese dei politici possono durare quanto un’aurora, Giorgia segnala una certa voglia di novità a destra. Come accade nel tennis, quando non appena uno dei due giocatori comincia a giocare male automaticamente l’altro si mette a giocar bene, anche in politica accade qualcosa di simile fra due competitor: e così l’aria che si intravede all’orizzonte segnala brutto tempo per Salvini e gran sole per lei. È quello che segnalano i sondaggi. È quello che suggerisce il dimenarsi scomposto dell’ex ministro dell’Interno un po’ su tutti i dossier a fronte di una percepita linearità di Meloni, che, impadronendosi in via esclusiva della bandiera dell’opposizione, gode di una molto maggiore visibilità e di un elevato spazio politico, ben più di lui, costretto a saltabeccare fra posizioni governative e antigovernative.
Ma la postura meloniana è da comizio (appunto, il celebre «Sono Giorgia, e sono una madre, e sono cristiana») più che da statista, il suo regno è la piazza più che lo studio a Palazzo Chigi, il suo cibo è l’eloquio a ruota libera più che il documento forbito, il suo habitat la strada più che il palazzo: nulla di nuovo, il Movimento sociale era questo (era anche altro che è meglio lasciar perdere in questa sede), e Giorgia è una vera missina, senza ironia. Più di Gianfranco Fini che, pur partendo dalla stessa storia, forzò al massimo grado la propria natura personale e politica restando però come in mezzo a un guado che presto lo sommerse. La Meloni ha lo stesso sangue di Francesco Storace, Gianni Alemanno, Ignazio La Russa: la destra prima di Fini. Beninteso, anch’ella ha fatto il suo bravo percorso ma resta più impastata del suo predecessore in certi modi di fare e di porsi, a partire da quell’ingrugnimento esteriore e interiore che fatica a dissimulare (come invece sa fare bene Marine Le Pen) e che, pur essendo un ingrediente del suo successo, ricorda sempre da dove viene.
Dunque, se le cose stanno così, tutto dice che per la prima volta nella storia d’Italia, e scusate se è poco, una donna si candiderà a guidare il Paese per di più in una fase storica eccezionale quale sarà quella della ripresa del post-pandemia. E si dovrà ragionare sul fatto che in questa fase è la destra a portare donne sul proscenio della gara per il governo (Le Pen, Meloni, ma si pensi anche al recentissimo voto di Madrid con la vittoria di un’esponente di destra come la “trumpiana” Isabel Díaz Ayuso) e dovrà pensarci soprattutto la sinistra, ancora in ritardo su questo punto (sempre leader uomini). Quella sinistra che ha sottovalutato la numero uno di Fratelli d’Italia – solo oggi qualcuno comincia a pensare che sarebbe l’avversario peggiore – a causa della storica minorità degli ex fascisti nella convinzione che più di tanto non andranno. La sinistra sta correndo il rischio di non accorgersi per tempo di dove stia l’avversario. E intanto Giorgia corre, anche se spaventosamente sola.