L’alleanza con BelfagorIl Pd e la strategia subalterna a un partito che non c’è

L’ex segretario del Partito democratico è invocato per Roma, ma nel frattempo, non si sa per quale motivo, i massimi esponenti del Nazareno continuano a considerare i Cinquestelle un interlocutore valido per le prossime tornate elettorali

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L’alleanza con Belfagor, il fantasma del Louvre, cioè la strategia del Partito democratico alla caccia del Movimento cinque stelle, rischia di produrre effetti imbarazzanti più che sul piano politico su quello della logica.

«Ogni giorno attribuisco minor valore all’intelligenza», scriveva un grande romanziere più di cento anni fa che certo non poteva immaginare a che punto sarebbe arrivata la politica italiana, mai potendo supporre che un partito di tutto riguardo si mettesse a inseguire un partito che non esiste.

Non è polemica: è un fatto che il Movimento in questo momento non sia niente, non dica niente, non produca niente, paralizzato da una querelle giuridica di scarso livello (a chi appartiene l’elenco dei militanti, al partito o alla Casaleggio Associati, come si sarebbe detto un tempo, a Forza Italia o alla Fininvest?), un garbuglio che blocca l’ascesa di Giuseppe Conte a leader del Movimento.

Risultato, nessuno decide niente. E il Partito democratico ci fa la figura dell’amante non respinto: nemmeno considerato.

Questa premessa era necessaria per spiegare in parole povere il pasticcio che riguarda Roma e la Regione Lazio, i cui destini sono fisicamente intrecciati dalla figura di Nicola Zingaretti, l’ex segretario del Partito democratico invocato dal suo partito come i tifosi dell’Italia 1970 reclamavano Gianni Rivera in campo contro il Brasile (e non andò bene), visto che i sondaggi – non è chiaro quali ma va bene lo stesso – indicherebbero che “Nicola” a Roma non avrebbe rivali, tantomeno Virginia Raggi, mentre ogni altro dem non potrebbe certo dormire tra due guanciali ma sudarsi voto per voto il passaggio al secondo turno.

Bene, Zinga ha detto decine di volte che vuole restare alla Pisana, sede della Regione Lazio, perché non intende «tradire la comunità» proprio in una fase delicatissima della campagna di vaccinazione, campagna che peraltro la sua giunta sta conducendo ottimamente.

E invece dietro le quinte da un mesetto la questione vera è stata posta in questi termini molto più prosaici: Zingaretti scenderebbe in campo a Roma solo se gli alleati pentastellati in Regione consentissero al presidente di restare in carica (la legge lo consente) fino a settembre in modo tale da evitare che lo stesso giorno, a fine ottobre, si vada a votare contemporaneamente per il Comune di Roma (con Partito democratico e Cinquestelle acerrimi nemici) e per la Regione Lazio (con Partito democratico e Cinquestelle ottimi alleati).

Si può certo obiettare sul senso istituzionale di una simile proposta. Un diretto interessato come Carlo Calenda, che si candiderà in ogni caso ma che certo con Zingaretti in campo avrebbe meno chances, ha protestato: «Candidassero chi gli pare: Zingaretti, Gualtieri, Napo Orso Capo o Amedeo Nazzari. Ma anche solo immaginare una norma ad personam per non fare un Election Day e spostare a dicembre le elezioni regionali, con un costo di decine di milioni di euro in più, è indegno e inaccettabile».

Ma, rilievi specifici a parte, quello che è negativamente notevole per una forza seria e importante come il Partito democratico è la disinvoltura con cui si pone nei confronti dei grillini, completamente spariti dal dibattito politico eppure trattati ancora come avessero in mano la chiave della situazione italiana.

Per ingolosire i grillini i dem sembrano pronti ad appoggiare Roberto Fico a Napoli già al primo turno, mossa che come sanno anche i sanpietrini di piazza Montecitorio tornerebbe utile per liberare la poltrona di Presidente della Camera a vantaggio di Dario Franceschini, il quale nell’éra Draghi ha perso un po’ di rilievo politico.

L’impasse romana determina tra l’altro la cottura a fuoco lento di Roberto Gualtieri, pronto a scendere in campo sospinto com’è dagli uomini forti del Partito democratico romano, affievolendo proprio come la cipolla in padella la sua candidatura, già non popolarissima: e solo la pazienza del personaggio gli consente di non tirarsi fuori da un gioco oggettivamente non sano.

Nella confusione c’è persino chi ha ipotizzato – ma qui siamo alla farsa – una partecipazione di Virginia Raggi alle primarie del 20 giugno, come se non fosse noto che la sindaca non solo non è organica al centrosinistra ma dal centrosinistra è considerata una mezza sciagura per la città («una minaccia», Zinga dixit).

Un modo maldestro per batterla prima del voto che tradisce una certa paura per lo stato di salute della sindaca, appoggiata esplicitamente anche da Casaleggio.

E allora, per tirare le somme a pochi giorni dalla decisione finale, c’è da dire che perdurando l’ambiguità del Movimento cinque stelle le quotazioni dell’ex segretario del Partito democratico parrebbero in calando. E forse non gli giova neppure questo amletismo più simile a Nanni Moretti («mi si nota di più se…») che al principe di Danimarca, questo farsi desiderare come fosse Napoleone dopo l’Isola d’Elba, soprattutto questo giocare a rimpiattino con le istituzioni e le date elettorali.

Eppure il Nazareno preme su “Nicola” in modo fortissimo. Goffredo Bettini ha chiesto a muso duro al suo allievo di scendere in campo e anche Enrico Letta sta usando tutti gli strumenti a sua disposizione. Difficile dire di sì ma difficilissimo dire di no: per Amleto-Zingaretti è ora di scegliere.

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