Nicola Sturgeon ha vinto le elezioni in Scozia. E ora viene il difficile. Come ai tempi di Elisabetta I d’Inghilterra, sull’isola c’è una seconda «regina» e governa (ancora) a Edimburgo. La sovracopertura mediatica dello spoglio canonizza in fretta, ma quando rientrerà, e verranno riassorbiti gli slogan e la retorica, saranno nitidi i pericoli della battaglia secessionista per una leader sinora di ferro. Sei anni e mezzo al potere non l’hanno logorata, ma ora la aspetta la sfida che ha detronizzato il suo predecessore, Alex Salmond, dopo il referendum del 2014. Il 2021 è più anno zero di allora: il nazionalismo scozzese non può permettersi un’altra sconfitta.
Sturgeon cercava la maggioranza assoluta, l’ha mancata di un seggio. Anche per via del sistema elettorale misto, il trionfo dello Scottish National Party (Snp), con il record storico di voti e di collegi conquistati, non è bastato per l’autosufficienza. Migliora il risultato del 2016, con un deputato in più che porta a 64 (su 129) le truppe della prima ministra a Holyrood. Uno in meno e per lo storytelling giornalistico la causa avrebbe perso terreno, uno in più e sarebbe suonato il knockout tecnico per l’unionismo britannico. Il paradosso è raccontare come in mezzo al guado di una «vittoria a metà» una forza politica che invece è reduce da un plebiscito. Sarebbe congeniale ai tatticismi di Downing Street.
There will be a pro-independence majority in the Scottish Parliament after the election of 64 SNP MSPs and eight Green MSPs.#BBCElections #SP21
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Malgrado i conservatori abbiano dilagato alle amministrative dello stesso giorno, il 6 maggio, non è un caso che il primo ministro Boris Johnson si sia affrettato a scrivere a Sturgeon. È una lettera di congratulazioni come quella indirizzata all’omologo gallese, il laburista Mark Drakeford, ma trasuda preoccupazione. Il premier ha invitato entrambi a un summit per salvare l’unità del Regno Unito, Sturgeon ci andrà. Peccato che a Cardiff i nazionalisti siano caduti alle urne, a vantaggio dei partiti maggiori, mentre in Scozia non è accaduto. Anzi, l’arco indipendentista può contare sugli Scottish Greens, gli alleati dello Snp che sono saliti da 6 a 8 seggi.
Johnson ha messo sul tavolo concessioni preventive: per esempio, offrire le scuole e gli ospedali inglesi a studenti e pazienti scozzesi. Utilizza la pandemia per motivare la necessità di cooperare e restare solidali, lo stesso argomento speso dal suo ministro Micheal Gove per rimpallare come una «enorme distrazione», e quindi non una priorità, il referendum. Che non viene menzionato nella missiva del primo ministro, centrata sulla ripresa dalla pandemia. Il giorno prima, in un’intervista al Telegraph, Johnson era stato più duro, bocciando come «irresponsabile e incosciente» una seconda consultazione.
First Minister of Scotland @NicolaSturgeon says "if we end up in court it would be because we have a UK government that refuses to accept Scottish democracy."
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— Sky News (@SkyNews) May 9, 2021
Il rifiuto «non ha semplicemente giustificazioni democratiche», gli ha replicato Sturgeon. Prima va superata l’emergenza sanitaria, ma poi la promessa verrà mantenuta perché questa «è la volontà della nazione». Quando? I passi legislativi per riconvocare alle urne gli scozzesi dovrebbero cominciare nella primavera dell’anno prossimo. Per adesso il governo centrale esclude di esercitare pressioni legali, ma è ancora troppo presto. Il fattore coronavirus può anestetizzare la disputa, però Johnson sa che dovrebbe essere Westminster a concedere l’autorizzazione secondo la legge del 1998.
Dopo la strategia “nordista” di Johnson a inizio 2020, quando si parlava di spostare a York la Camera dei Lord per avvicinarla al confine, la campagna unionista dei Tories era finita in disarmo. La task force di Downing Street dedicata a sventare la disintegrazione del Paese è stata decapitata due volte e infine riassorbita dal ministero di Gove, che presto aprirà uffici a Edimburgo. Nel partito sembrano esserci due correnti: chi sostiene un secondo referendum sia inevitabile e chi ritiene l’ordalia del voto una mossa suicida. Johnson era stato chiaro: la consultazione può avvenire “once in a generation”, una volta per ogni generazione. I conservatori sono a un bivio, ma lo è anche il nazionalismo scozzese.
La marcia di avvicinamento alle urne è delicata. Un conto è (stra)vincere le elezioni locali con una corazzata compattata dall’obiettivo comune, un conto gestire lo scontro con Londra e quindi sottoporre ai cittadini una domanda binaria. Il partito che perse il referendum del 2014 (44,7 per cento i “sì” all’indipendenza, 55,3 per cento i “no”) era lo stesso che nel 2011 era riuscito a raggiungere la maggioranza assoluta (con 69 deputati) sfuggita a Sturgeon. Certo, era prima della Brexit. Una parte dell’elettorato si divide tra chi vorrebbe maggiori poteri, cioè potenziare la devolution, e chi sogna la secessione vera e propria. Un piccolo segnale dalle elezioni: lo Snp è arretrato praticamente solo nei collegi meridionali, al confine con l’Inghilterra.
Come ha colto Helen Lewis sull’Atlantic, il partito di Sturgeon ha un difetto che a prima vista sembra invidiabile: ha il problema di vincere. Dopo una decade nelle istituzioni, secondo questa analisi, l’assenza di dibattito lo rende impreparato a gestire il dissenso interno. L’inner circle della prima ministra, poi, ha assunto un peso sempre più consistente; tanto che il numero due dello Snp è il marito. Una specie di “royal couple”. È l’indipendenza il collante di una base diversificata, sia politicamente sia anagraficamente: dai giovani precari ai loro genitori benestanti, tra progressisti e conservatori, europeisti più o meno convinti.
Il collante di questo schieramento è l’aspettativa di un nuovo referendum: la sua tenuta, almeno per alcune componenti, verrà messa alla prova dalle trattative con Downing Street e, nel caso, dal quesito sulla scheda. Come scrive Lewis, «il percorso di Sturgeon verso i libri di storia è chiaro, ma è al condizionale». È appeso, cioè, a una serie di «se» dalla cui reazione a catena dipenderà il finale. Nonostante l’affermazione netta degli autonomisti alle elezioni (49% nell’uninominale, 51% nel proporzionale), metà della Scozia ha votato partiti unionisti: con percentuali simili, nessuno dei due campi può essere sicuro di vincere l’“indyref2”, come viene chiamato dai media.
Su una sola cosa Johnson e Sturgeon sono d’accordo: non è il momento giusto per votare. Nei prossimi mesi il governo proverà a correggere il tiro, perché l’ostruzionismo favorirebbe i ribelli, che denuncerebbero di non essere ascoltati da Londra. Dopo aver celebrato il «risultato storico», la prima ministra è attesa da una partita a scacchi su due fronti. La Scozia ha mosso. Scacco. Ora spetta all’Inghilterra rispondere.