Inside EdimburgoCosa dobbiamo aspettarci dalle elezioni in Scozia

Il 6 maggio si vota nella nazione più a nord del Regno Unito. I sondaggi danno per favorito lo Scottish National Party. Se ottenesse una maggioranza assoluta per Londra sarebbe un segnale impossibile da ignorare. Dalla misura della vittoria della premier uscente Nicola Sturgeon dipenderà la forza del governo scozzese nel chiedere a Boris Johnson un secondo referendum per l’indipendenza

LaPresse

Il 6 maggio la Scozia non rinnoverà solo i 129 deputati del suo piccolo Parlamento, ma potrebbe cambiare per sempre il futuro del Regno Unito. La premier Nicola Sturgeon affronta la prova che determinerà la sua biografia politica. Tutto il paese attende gli exit poll per capire se risorgerà un confine, oggi ideologico domani chissà, lungo il vallo di Adriano. Se il suo Scottish National Party ottenesse una maggioranza assoluta (la metà più uno dei seggi) per Londra sarebbe un segnale impossibile da ignorare. Dalla misura della vittoria di Sturgeon dipenderà la forza del governo di Edimburgo nel chiedere un secondo referendum per l’indipendenza al governo inglese.

Il risultato non è scontato. Il sistema elettorale scozzese ha due componenti: ciascuno dei 73 collegi elegge un rappresentante tramite un maggioritario uninominale secco (il cosiddetto first-past-the-post), gli altri seggi (sette per ognuna delle otto regioni) vengono assegnati in modo proporzionale. Dopo un picco nei sondaggi, lo Scottish National Party (Snp) di Sturgeon è dato stabilmente primo ma in leggero calo; nel campo autonomista potrebbe sottrargli voti il nuovo Alba Party dell’ex leader Alex Salmond, mentre risalgono le versioni provinciali di conservatori e laburisti. 

Tra le priorità dei primi cento giorni di Sturgeon non c’è al momento una richiesta ufficiale, ed è naturale, vista l’emergenza sanitaria ancora in corso. Ma la premier scozzese lo ha promesso nel lungo periodo e lo ha confermato in un’intervista al Guardian: se il suo partito avrà la maggioranza, il primo ministro Johnson non potrà opporsi a una nuova consultazione popolare. Boris non ha (ancora) replicato, è troppo impegnato a smarcarsi dallo scandalo privato sulla ristrutturazione degli appartamenti di Downing Street a spese dei contribuenti (dietro la fuga di notizie, sembra esserci la vendetta del ripudiato Dominic Cummings). 

 

La campagna della premier uscente si è concentrata su un programma concreto: traghettare la Scozia fuori dall’incubo coronavirus, rafforzare la sanità locale, sostenere la scuola pubblica, creare nuovi posti di lavoro per i giovani e nella green economy. La risposta di Edimburgo alla pandemia è stata giudicata dai cittadini più efficace di quella britannica: Sturgeon punterà su questo, cercando di capitalizzare la fiducia e la credibilità acquisite durante i mesi di lockdown, prima che il piano di vaccinazioni entrasse nel vivo. Più di metà degli scozzesi ha ricevuto la prima dose: 2,8 milioni di persone su 5,4 milioni di abitanti. Sopra i cinquant’anni di età, la copertura con la prima iniezione supera il 90% della popolazione ed è pressoché totale per gli over 55 (fonte: Public Health Scotland).

L’indipendenza, però, è la convitata di pietra di ogni comizio, anche se virtuale. È l’obiettivo a lungo termine che lo Scottish National Party promette di realizzare. Non a caso, Sturgeon ha rilanciato una lettera sottoscritta da oltre 170 intellettuali europei (tra gli italiani figurano Roberto Saviano ed Elena Ferrante) come appello all’Ue perché si impegni ad accogliere una Scozia indipendente in anticipo sulla prossima consultazione popolare. Una specie di corsia preferenziale per il ritorno, a pieno titolo da «Stato membro», come accadrebbe all’Irlanda del Nord se in futuro si riunisse a Dublino. Più che influire sulla politica estera di Bruxelles, il documento ha peso se interpretato come un endorsement alla causa secessionista. 

 

Ci sono alcune variabili da considerare alla vigilia del voto di giovedì. L’affluenza, storicamente, non è alta: dal 1999 a oggi è stata in media del 53%. Non è necessariamente un fattore di instabilità – nel 2016 lo Snp ha vinto in tutti e 41 i seggi con la più alta astensione – ma faranno meglio i partiti che riusciranno a mobilitare l’elettorato. Sono venticinque le formazioni in corsa, venti quelle minori: tra queste, l’Alba Party di Salmond potrebbe oltrepassare lo sbarramento del 6% su base regionale. Lui dichiara di voler puntellare l’arco indipendentista, ma rischia che la sua concorrenza danneggi i nazionalisti. In ogni caso, Alba ha presentato candidati solo per i seggi distribuiti su base regionale e non nell’uninominale. 

Sono dieci i collegi contesi, dove un margine del 5% può fare la differenza. Lo Snp vorrebbe espugnarne nove per non ritrovarsi a governare in minoranza, come fa dal 2016. La maggioranza si ottiene con 65 deputati a Holyrood, nella scorsa legislatura il partito di Sturgeon ne contava 63, contro i 30 dei conservatori e i 23 dei laburisti (5 ciascuno per liberaldemocratici e verdi, altri cinque da liste più piccole). Potrebbero essere decisivi gli Scottish Greens, a favore dell’autonomia e spesso alleati in aula della premier: secondo le rilevazioni, potrebbero raddoppiare i consensi. 

Il sistema elettorale, in passato, ha penalizzato lo strapotere dello Snp. Per esempio, nel 2016, ha eletto 59 parlamentari nell’uninominale e solo 4 su base regionale, mentre la maggior parte dei delegati dei conservatori (24 su 31) e dei laburisti (21 su 24) è rientrata dalla finestra proporzionale. L’ultimo a conquistare la maggioranza assoluta è stato proprio Salmond, allora alla guida dello Snp, nel 2011. Se Sturgeon non riuscisse nell’impresa, potrebbe sperare nella crescita dei verdi per non esporsi ai ricatti dell’Alba Party dell’ex dominus della politica scozzese. 

Infine, l’autonomismo così mediatizzato è un parametro instabile. Dopo che la forbice si era allargata durante il 2020, di recente si sono avvicinati fino a una sostanziale parità i sondaggi sull’«indipendentismo»: nel più recente, datato 27 aprile, il «No» per restare nel Regno Unito batte il «Sì» secessionista per la prima volta dal giugno 2020. Nel referendum del 2014, il «No» aveva vinto al 55%, ma nelle successive indagini demoscopiche era crollato attorno a un virtuale 45% (la percentuale su cui si attestava il «Sì» prima della Brexit) tra l’autunno e dicembre. 

Lo stesso giorno, in Galles, si tengono le elezioni per la Senedd Cymru, l’assemblea nazionale con sessanta membri, gemella di «devolution» di quella di Edimburgo. A Cardiff dovrebbero restare al timone i laburisti di Mark Drakeford.  

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