La socialdemocrazia sta perdendo la bussola, ha scritto il Guardian, nonostante i recenti successi di immagine a cura di Joe Biden. In realtà la socialdemocrazia non è messa bene da una quarantina d’anni, da quando la rivoluzione liberista di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan ha dato consistenza anche intellettuale alla destra conservatrice, fino a contagiare le politiche progressiste della nuova sinistra degli anni Novanta e Duemila, quella blairiana-clintoniana oggi quotidianamente infamata dai neosocialisti con l’epiteto di «neoliberale», come se essere liberale fosse un insulto.
Eppure, ricorda il Guardian, dalla Gran Bretagna alla Germania, questa famigerata sinistra neoliberale ha migliorato enormemente i servizi pubblici e il welfare dei paesi dove ha governato, riformando il mercato del lavoro e combattendo con successo la povertà e la disoccupazione, per non parlare dell’enorme progresso che è riuscita ad ottenere con la globalizzazione e con la redistribuzione di ricchezza dal primo al terzo mondo.
Questa sinistra chiamiamola moderna ha cominciato a perdere il contatto con gli elettori dopo la crisi finanziaria del 2008, nel tentativo di difendere le conquiste dei due decenni precedenti, a tutto vantaggio degli estremisti di destra come Tea Party e neo, ex, post fascisti, ma anche degli anticapitalisti di sinistra alla Occupy Wall Street e degli antipolitici come Grillo e Trump.
In questi anni bui, la sinistra senza bussola ha provato a cancellare le tracce di blairismo e clintonismo con una grande operazione purificatrice, a cominciare dalla stessa Hillary Clinton che si è presentata al voto del 2016 con la piattaforma più di sinistra della storia del Partito democratico americano, trasformato per l’occasione in una coalizione di minoranze identitarie di ogni ordine e grado, sufficiente a convincere la maggioranza degli elettori americani, ma non la working class delle zone più colpite dagli sconquassi sociali generati dall’innovazione tecnologica e dove si è decisa l’elezione alla Casa Bianca.
In Gran Bretagna la sinistra si è affidata al laburista minoritario e d’altri tempi Jeremy Corbyn, in Italia ha eliminato il corpo estraneo Matteo Renzi, in America ha celebrato l’epopea del vecchio rivoluzionario Bernie Sanders e lanciato nuove star della comunicazione politica come Alexandria Ocasio Cortez, in Grecia si è affidata per disperazione ad Alexis Tsipras e Yanis Varoufakis, in Francia si è infatuata di Jean-Luc Mélenchon con contorno di lucciconi per le nazionalizzazioni venezuelane. In Spagna la trasformazione è cominciata prima, nel 2004, con il socialismo ciudadiano di Zapatero, peraltro anticipatore di tanti temi sull’identità di genere oggi di grande attualità.
Alla prova dei fatti, il bilancio della controriforma di sinistra è stato catastrofico: innanzitutto ha vinto Trump, c’è stata la Brexit, poi la destra è arrivata ai massimi storici un po’ ovunque, infine abbiamo assistito a cadute ingloriose (Corbyn), a testacoda a tutta velocità (Tsipras), all’ascesa dei partiti populisti e alla volenterosa complicità dei democratici (Italia), e al sorpasso dei leader moderati (prima Macron e ora Biden).
Il caso italiano, come spesso accade, è emblematico di questo percorso: la sinistra si è trasformata in agenzia interinale che fornisce buon personale di governo alle istituzioni di ogni ordine e grado, ha cancellato ogni residuo di liberalismo progressista e si è genuflessa strategicamente davanti al populismo giustizialista nell’illusione di poterlo domare, ma finendo, come era prevedibile, per esserne travolto. Un errore che la sinistra italiana continua a ripetere almeno dal 1993, dall’adesione al giustizialismo di Mani Pulite come via maestra per conquistare il potere, poi naturalmente conquistato da Silvio Berlusconi.
La vittoria di Biden in America e i primi passi del neo presidente, che i soliti noti fino all’altro ieri consideravano un venduto al capitale e un personaggio indistinguibile dalla destra, hanno cominciato a rispostare l’asse politico sul quadrante tradizionale della liberaldemocrazia, ironicamente con il plauso dei detrattori dell’altro ieri.
Anche la fortunata sostituzione a Palazzo Chigi del padrino dei Cinquestelle Giuseppe Conte con l’atlantista ed europeista Mario Draghi è la conseguenza di questa ancora debole, ma decisa, riscossa dei socialisti liberali, come si intuisce ogni giorno dal fastidio che alcuni ambienti di sinistra provano per l’ex governatore della Banca Europea, per non parlare dei reiterati e grotteschi corteggiamenti nei confronti del defenestrato Conte, l’avvocato del popolo già alleato di Salvini, Putin e Trump e ora anche di Virginia Raggi.
Insomma, questa è la fotografia della sinistra occidentale e di quella italiana: una proposta politica non ancora il grado di fornire un’alternativa credibile al sovranismo, ancora attratta dalle scorciatoie di massa del populismo, incapace di dare rappresentanza ai temi della transizione ecologica e digitale, e al massino impegnata a costruire un’offerta politica centrata sui diritti identitari di genere, razza, religione, contesto sociale, classe.
I diritti identitari sono una battaglia sacrosanta, se priva di eccessi, ma a seguire il dibattito pubblico spesso si ha l’impressione che si tratti di un calco dei telefilm americani o di una posa per ottenere like sui social. La sinistra che si fa sindacato degli offesi si impantana a difendere la suscettibilità della società contemporanea a discapito di questioni più cogenti come la crescita, il lavoro e la protezione sociale.
Nessuno ha la ricetta esatta per tornare a guidare il cambiamento e per rilanciare il progresso della società globale, ma si potrebbe cominciare dall’abbandonare al loro destino i populisti, anziché rianimarli ogni volta che stanno per implodere, dal porre fine alla guerra civile tra socialisti e liberali, dal tenere nella giusta considerazione le questioni identitarie senza strafare per conquistare il collegio di Propaganda Live, e dall’affidarsi a leader adulti come hanno fatto gli americani e adesso anche noi.
Sì, intendo che i liberali e i socialisti, i moderati e i progressisti, vadano alle prossime elezioni preannunciando agli elettori che, una volta insediato il Parlamento, indicheranno al presidente della Repubblica la disponibilità a votare la fiducia a un nuovo governo guidato da Mario Draghi.