«Si può forse brevettare il sole?». Questa la celeberrima risposta di Jonas Salk, che si può ascoltare anche su YouTube, a un giornalista che gli chiese chi fosse il proprietario del vaccino antipolio da lui inventato. La realtà storica racconta che Salk aveva pensato di brevettare il suo vaccino, ma gli fu detto dagli avvocati che non avrebbe avuto successo, perché le tecnologie usate per ottenerlo, erano note da circa tre lustri. A riprova che Salk non aveva nulla contro i brevetti per i vaccini, e negli ultimi anni di vita, provò a sviluppare un vaccino contro l’Aids, applicando per un brevetto sulla procedura.
Un vaccino non è un bene comune, per definizione. Non è come minerali, acqua, i pesci del mare. Con buona pace di chi lo crede. Perché non è qualcosa di accessibile a tutti in quanto risorsa naturale o servizio pubblico. Volendo ragionare per paradosso, sarebbe il virus non modificato e che si può contrarre naturalmente per immunizzarsi… un bene comune. In realtà, un male. Quando agli inizi dell’Ottocento qualcuno negli Stati Uniti tentò di brevettare il vaccino antivaioloso importato dall’Inghilterra, non ebbe successo perché il virus delle vacche si trova in natura. Nel caso, la legislazione sui brevetti sarebbe da cambiare perché, come conseguenza della frammentazione delle tecnologie per fabbricarli, ha causato una tragedia di beni non comuni, nel senso che in quanto possono escludere l’accesso a innovazioni molto esclusive ma strategiche, non ancora applicate, così come funziona ora la legislazione può ritardare lo sviluppo di prodotti finali utili e commercializzabili. Ma non è stato il caso dei vaccini anti-Covid. Anzi.
Un vaccino basato su tecnologie e manipolazioni dell’agente infettivo che non siano esistite prima sotto il sole, è un’invenzione, qualcosa che non esiste già e non si trova in natura, non è una teoria o scoperta scientifica o qualcosa di ovvio e la cui fabbricazione è descrivibile di modo che possa essere fabbricato da chi acquistasse la licenza ed eventualmente migliorato con nuove invenzioni (brevettabili).
La storia dei rapporti tra vaccini e brevetti è piuttosto interessante, ma poco conosciuta. La tesi, che risale al primo documento veneziano del 1474, che introduceva la proprietà intellettuale, ovvero che i brevetti servono a incentivare non tanto le invenzioni quanto la circolazione o pubblicazione delle informazioni che stanno alla base di un’invenzione, è confermata dal caso del vaccino veterinario contro il carbonchio. Pasteur lo inventò insieme a Roux e Chamberlain, nel 1876, ma non poté brevettarlo perché una legge francese lo impediva per i farmaci. Pasteur, che aveva già un brevetto per la fabbricazione della birra, di fatto non divulgò il metodo per ottenerlo trattenendolo come segreto e nel suo diritto, per cui il laboratorio-fabbrica che creò, gli consenti di esercitare a lungo il monopolio e impedì ogni innovazione per decenni. La conseguenza fu che non si ebbe alcuna innovazione fino al 1930. Per fortuna non tenne lo stesso atteggiamento con il vaccino antirabbico umano.
La richiesta di brevetti sui vaccini rimase di fatto molto bassa fino agli anni Cinquanta, mentre nei decenni successivi, soprattutto dopo il 1980 quando negli Stati Uniti diventava possibile per le università chiedere brevetti, i brevetti richiesti sono cresciuti annualmente fino al numero di due centinaia nell’ultimo decennio, ma i vaccini approvati sono diminuiti. E questo per diverse cause: in primo luogo le leggi che richiedono prove di efficacia e sicurezza, quindi la natura stessa del farmaco, che non è commercialmente vantaggioso a meno di pandemie o epidemie che colpiscono paesi ricchi e, infine, con l’evoluzione delle biotecnologie c’è stata la frammentazione capillare della protezione intellettuale.
La discussione in corso non ha alcun connotato tecnico, ovvero non è intesa a migliorare l’uso della protezione intellettuale in funzione di favorire l’innovazione su più ampia scala nello sviluppo dei vaccini. O di consentire una maggiore produzione di vaccini anti-Covid, se non sulla base di irrealistici miraggi per cui si pensa che prodotti ipertecnologici e che richiedono condizioni ottimali di produzione potrebbero essere costruiti in sicurezza in contesti privi del know how, non controllati e non garantiti da regolamenti adeguati.
Siamo di fronte a un vero e proprio caso di pregiudizio ideologico-moralistico nei riguardi di un sistema di sviluppo, produzione e commercializzazione di un manufatto, sulla base della credenza e senza alcuna prova che l’incentivo alla base del risultato sin qui ottenuto sia fonte di danni e limitazioni nella fruizione, ovvero che impedisca per sua stessa natura una più efficiente circolazione e più estesi effetti del prodotto.
Una credenza abbastanza singolare e sostanzialmente causata da false intuizioni psicologiche, che inducono a credere che il funzionamento dell’innovazione potrebbe procedere altrettanto bene, sostituendo incentivi solo morali a quelli anche economici che attualmente lo governano.
I brevetti non sono necessariamente il modo migliore per incentivare l’innovazione: è possibile immaginare alternative diverse. Per esempio, sistemi di premi, che sicuramente fanno parte della storia della tecnologia e delle scoperte scientifiche. Ma attenzione: qualsiasi alternativa deve porsi precisamente lo stesso problema che viene risolto dal brevetto. Come, cioè, incentivare l’iniziativa delle persone e delle imprese. Le alternative sensate al sistema dei brevetti non sono, come invece si lascia intendere in questi giorni, l’abolizione del profitto a vantaggio del dono.
La crescita economica moderna è stata resa possibile in un mondo nel quale tutti abbiamo accettato di appellarci non alla benevolenza del macellaio, del birraio e del fornaio, bensì al loro autointeresse. Smith, che aveva scritto prima della Ricchezza delle nazioni la Teoria dei sentimenti morali, non era il fautore di un egoismo spietato ma uno studioso della cooperazione umana. Perché cresca l’offerta di beni e servizi a nostra disposizione, noi abbiamo bisogno di beneficiare di reti vaste e ramificate. Queste ultime si possono reggere solo su incentivi economici. Se ci conoscessimo tutti, potremmo scambiare cose gli uni con gli altri sulla base dell’affetto, del senso di solidarietà, della collaborazione consapevole al raggiungimento del medesimo risultato. Ma siamo sette miliardi su questa terra.
Il mondo moderno si regge proprio su questa idea: ci affidiamo all’autointeresse altrui, accettiamo che le cose importanti, proprio perché sono importanti, siano fatte dalle persone non per senso di appartenenza o slancio altruistico, ma perché ciascuno desidera mettere il pane sulla sua tavola e migliorare le proprie condizioni. Se ciò non avvenisse, se non ci rapportassimo gli uni agli altri presupponendo che ciascuno faccia il proprio interesse quando ci scambiamo beni o servizi, saremmo costretti a rivolgerci soltanto a quelle persone che conosciamo e che conoscendoci sono disponibile ad avere, con affetto, stima e benevolenza, a che fare con noi.
Per una sorta di eterogenesi dei fini, nell’Occidente moderno le nostre inclinazioni egoiste e altro, che l’autoinganno sociale giudica difetti, sono stati piegati alla costruzione di un ordina sociale che è migliore di sempre. La psicologia morale cognitiva come l’economia comportamentale forniscono diverse prove di questo. Ma come nel caso dei brevetti anche ai massimi livelli politici si preferisce assecondare o credere a pregiudizi, illudersi, senza conoscere i rischi che si stanno facendo correre a società che dovrebbe affrancarsi il più possibile dagli autoinganni. Molto probabilmente si cerca solo di guadagnarsi la reputazione di paladini degli oppressi. Come l’egoismo del profitto può assecondare il benessere sociale, così invece la vanagloria dell’applauso può rivelarsi socialmente disastrosa.