In arte Neve, all’anagrafe Danilo Pistone. È uno street artist di 35 anni da poco diventato papà («Ormai notti e giorni si assomigliano», dice divertito al telefono). È nato a Torino, realizza opere mozzafiato e di certo non ha peli sulla lingua: «Mi faccio quelle che in gergo sono volgarmente dette “seghe mentali”, e cioè prima di realizzare un disegno mi piace andare a capire che posto è, chi ci passerà, ma anche da quale direzione arriva la luce del sole».
Altro che seghe mentali, Neve ha riassunto in poche parole (e con l’accento torinese “sporcato” dagli anni trascorsi a Milano) il nodo centrale dell’arte di strada: il dialogo che intesse con il contesto urbano e i passanti che ogni giorno lo abitano. Migliaia di gambe e occhi sovrappensiero, indaffarati o distratti che solcano le vie delle città. E quante volte è successo di dirigere lo sguardo verso questo o quel murale, ammirandone linee e colori.
«Che belli», viene da pensare, ma la parete di un casermone di periferia rimarrà sempre tale, con o senza una spruzzata di vernice. E così i problemi in essa radicati, figli di anni di abbandono e disservizi. Il punto di vista cambia se si considera l’opera non come mero prodotto ideato per abbellire una facciata, bensì processo di riappropriazione di spazi pubblici e identità.
È quello che fa Mario D’Amico, 68 anni, street artist di periferia. Nel 2013 fonda il movimento dei “Pittori Anonimi der Trullo” e il nome non fa mistero delle sue origini romane. Il Trullo è una borgata a sud-ovest della Capitale e da quando Mario è tornato a viverci ha cambiato volto. Quasi a ogni angolo spuntano murales bellissimi, spesso accompagnati da versi in rima. Li scrivono i “Poeti der Trullo”, la costola primaria da cui è nato il progetto di D’Amico. Prima di eseguire il disegno, lui e il suo stuolo di artisti citofonano e mostrano i bozzetti ai residenti.
Se approvati proseguono con la realizzazione, che porta con sé anche qualche piccola miglioria: una passata di stucco per tappare i buchi sui muri, tagliare l’erba alta. L’intento è scuotere i residenti dall’immobilità: «Lo faccio per i regazzini, la generazione mia ormai è persa, ma loro no».
Chissà se Mario sa quale gesto primordiale si nasconde dietro al tosare l’erba nel quartiere. «Fin dai tempi antichi, spiega la psicologa e psicoterapeuta Donatella Caprioglio, l’essere umano ha bisogno di addomesticare l’ambiente in cui vive. Un prato in ordine attrae l’occhio perché esprime la cura verso quel luogo, e percepire cura e amore diminuisce la paura sociale. La street art risponde alla stessa esigenza. Dipingere pareti ed edifici significa, secondo Caprioglio, «dare un volto alla superficie, quasi rendendola umana. Colorando si racconta un’idea, anzi di più, si dice: “io esisto”».
Avere uno spazio destinato a esprimere «la propria peculiarità» è fondamentale anche per Giovanni Matteucci, professore ordinario di filosofia estetica all’Università di Bologna. Le periferie, che lui definisce «distanze immodificabili», dovrebbero disporre di «luoghi o momenti destinati ad accogliere la soggettività». In quest’ottica il palazzo diviene tela moderna, anzi lavagna «su cui incidere un segno che rappresenti la propria cifra distintiva». La street art, sostiene Matteucci, ha il pregio di «costruire una cultura della diversità nell’uniformità».
Non solo arte, però. Lo spazio urbano deve essere progettato in modo «esteticamente responsabile», dichiara il professore, dunque pensando alle relazioni che in esso avverranno. È lo stesso assunto da cui muove Roberto Pantaleoni, architetto del collettivo “Orizzontale”: «Bisogna abbandonare l’idea del professionista-demiurgo in grado di decidere da solo le forme e ricordare che il fine è agevolare l’incontro tra persone». E nessun luogo è meglio di una piazza per far incontrare moltitudini.
Ecco perché “Orizzontale” ha deciso di riqualificare il quartiere Toscanini di Aprilia (una città a meno di 50 chilometri da Roma) costruendo una sterminata agorà moderna, estesa su una superficie di 8600 metri quadri. Per farlo ha impiegato diversi prefabbricati e materiali facilmente reversibili. «Stacchiamoci dall’idea dell’immortalità dell’opera, oggi i luoghi devono essere dinamici e rispondere alle variazioni d’uso di chi li abiterà».
Per sua stessa natura, anche la street art è un inno alla contingenza e non aspira a bearsi della sua immortalità. Come dice il curatore di arte urbana Stefano S. Antonelli, il nodo centrale dell’arte di strada risiede nella capacità di «cortocircuitare», cioè mettere in correlazione il livello più alto, l’espressione artistica, con quello più basso, il contesto urbano spesso degradato. Le opere che nascono in strada sono fatte per essere vissute tutti i giorni dai passanti-spettatori, non contemplate come oggetti preziosi.
Il contrario di quanto accade in un museo: «Al suo interno abbassi la voce, componi i movimenti e cerchi di essere il meno disturbante possibile. Lo stesso atteggiamento che assumi in un luogo sacro». Il suo progetto, invece, guarda alla capacità performativa dell’arte, e cioè all’interazione con le persone. realizzarla nel contesto urbano è anche un modo per renderla più fruibile, sottraendola al dominio di esperti d’arte e collezionisti.
Antonelli è responsabile di “Big City Life”, un progetto di riqualificazione destinato a Tor Marancia, altro quartiere periferico di Roma. Qui artisti italiani e internazionali hanno realizzato 22 murales e dato vita al Museo Condominiale della zona. Secondo il curatore le opere sono «rappresentazioni ermeneutiche», cioè prodotti in grado di stimolare il passante a chiedersi cosa rappresentino. «Il contesto urbano è dominato da immagini che veicolano messaggi chiari, azzerando ogni tipo di interpretazione», racconta.
Lo scopo del museo a cielo aperto era solleticare la curiosità delle persone, spingerle a chiedersi: «Cos’è?». È successo davanti al murale dello street artist Jaz (il vero nome dell’artista argentino di origini italiane è Franco Fasoli), un episodio che Antonelli ricorda con piacere. Il disegno rappresenta due lottatori – sui calzoncini uno reca lo stemma della bandiera argentina, l’altro italiana – mentre combattono tra loro. L’argentino tiene sulle spalle l’atleta italiano e hanno entrambi un volto di tigre. Due passanti anziani li osservano senza spiegarsi il motivo, finché non arriva uno spettatore più giovane: «Ma che non ve lo ricordate l’uomo tigre?» Ha ragione, “Il Peso della Storia” (questo il nome dell’opera) è un omaggio al cartone animato.
«Siamo consumatori di esperienza e di bello – sostiene il professor Matteucci – e la forza espressiva della street art risiede nel fatto che i suoi prodotti artistici sono concepiti per permettere a chi guarda di immergersi in loro». Consumare il bello presuppone una dinamica precisa: le opere non possono né devono essere racchiuse in una teca che le sottragga al circuito dell’usura. Il murale è frutto di una specifica contingenza proprio perché racchiude in sé la soggettività dell’artista e l’identificazione del passante-spettatore.
Un “qui e ora” determinato, ma passibile di cambiamento. Come le architetture attente ai bisogni delle persone, così anche l’arte di strada, che proprio insieme all’architettura costituisce una sfaccettatura della riqualificazione urbana, è destinata a essere in costante mutamento. Incarna la necessità del tempo e quando questo cambierà dovrà cedere il passo a un disegno che ne colga di più lo spirito. È lo Zeitgeist, bellezza.