Carlo Petrini è un genio del marketing, e come tale andrebbe studiato e considerato. L’abilità con la quale ha costruito strumenti e piattaforme di comunicazione merita analisi approfondite e l’ammirazione di tutti coloro che, come lui e con lui, hanno riscoperto il gusto delle produzioni di prossimità: che poi in un Paese come l’Italia sono di per sé un universo di gusti, sapori, aziende gioiello a conduzione familiare.
Ma ognuno è figlio dei suoi tempi. Così, il marketing petriniano non è solo questione di prodotti e sapore ma deve, quasi per definizione, anche mostrare un volto politico, inserirsi in una visione del mondo dove l’uomo è ciò che mangia e ciò che mangia non può essere mera faccenda individuale. Non basta che qualcosa sia buono o sia fatto bene: deve esibire la nobiltà di un più stretto rapporto con la natura, se non addirittura diventare uno strumento di purificazione.
È per questo che Petrini ha lanciato quella che somiglia a una vera e propria fatwa verso quegli scienziati che non ascoltano il verbo biologico (nel quale include giustamente quello biodinamico), e che anzi non si rassegnano a che esso venga sussidiato dai contribuenti europei.
Beninteso, Petrini, bontà sua, ci spiega che il metodo scientifico a lui sta pure bene, purché lo si usi secondo le opportune, ma non precisate, indicazioni e se possibile non in prossimità delle sue iniziative. Per carità, la scienza nella vita non è tutto. Infatti, nella vita c’è anche la musica, la politica, la religione. C’è il cibo, la gastronomia, il gusto. Ma se si vuole sapere quali geni contiene un genoma animale o vegetale e misurare la resa di una varietà da coltivare, informazioni che servono per coltivare meglio e in sintonia con l’ambiente, da tempo ricorriamo alle tecnoscienze e non all’esegesi dei libri sacri o alle sedute spiritiche.
Quando si parla di agricoltura biologica, però, non si fa un discorso estetico, relativo al gusto e alla qualità eminentemente alimentare. Bio non è solo buono: deve essere giusto. E questo essere “giusto” implica qualità che debbono prevalere sul discorso scientifico ma anche sulla logica economica: quella che ha spinto verso una agricoltura sempre più industrializzata, ovvero volta alla produzione di massa, necessaria, crediamo, per sfamare un mondo di sette miliardi di persone.
Gli scienziati non hanno mai chiesto di mettere al bando il biologico. Loro non fanno parte di una organizzazione parareligiosa. Hanno chiesto che il parlamento e il governo scelgano su basi non ideologiche, ma usando prove, come sviluppare una politica agricola finanziata dalle tasse di tutti cittadini e non solo quelle degli agricoltori biologici. Hanno chiesto che vi sia libertà di ricerca e che i controlli siano trasparenti. Forse avrebbero anche dovuto chiedere che sia ristabilita la libertà d’impresa, dal momento che ancora si deve capire su quali basi ai nostri agricoltori è vietato coltivare quegli ogm, che però importiamo per alimentare le fonti di tanti nostri prodotti DOP.
Con un argomento singolare Petrini si chiede perché mai il biologico debba essere controllato mentre gli altri usano la chimica a manetta. A parte che senza la chimica non c’è pianta che cresca, il fatto è che da un lato il biologico promette di attenersi a certe pratiche, per cui se un consumatore acquista un prodotto perché ottenuto in un certo modo, esso deve effettivamente essere così. Altrimenti tutti attaccherebbero l’etichetta biologico per esigerne il premio al prezzo. L’essenza del biologico, per così dire, sta in quelle restrizioni: non è un capriccio degli avversari.
Petrini non torna a dire, con l’enfasi di vent’anni fa, che il biologico è superiore per qualità e salubrità o perché ha un minor impatto ambientale. Non ci sono prove, e quelle che abbiamo dicono più spesso il contrario. Il biologico è una scelta para-etica, nella quale un gruppo con grande capacità di pressione ha saputo coinvolgere anche l’Unione europea, che ha adottato un piano per arrivare nel 2030 a coltivare il 25% del territorio a biologico. Per fortuna non siamo in Unione Sovietica e non si tratta di un piano bi-quinquennale.
Una persona per la quale è più importante (o finge che lo sia) amare la terra (madre) che i nostri simili umani, in particolare parenti e amici, suscita qualche inquietudine. La psicologia elementare consiglia di non contraddirla, cioè di non perdere tempo cercando di fargli cambiare idea.
Sul piano delle dinamiche sociali, queste persone portatrici di una religiosità animista con elementi di millenarismo, in tempi di crisi economica e culturale, possono diventare catalizzatori di qualche forma di religiosità collettiva più o meno partecipata, che se viene alimentata da protezionismi politico-economici, può percolare attraverso vie di comunicazione e ricatti, compromettendo le dinamiche più vantaggiose dell’innovazione e del mercato.
Da anni ascoltiamo le prediche sulla decrescita solitamente fatte da persone che contemplano la decrescita altrui, ma sono attente a ricavare profitti parassitari dal protezionismo che negoziano con politici e governanti o attraverso la credenza che povero e naturale è meglio di tutto, che può diventare, come abbiamo già detto, un formidabile strumento di marketing.
In realtà, tutta la vicenda un po’ ricorda Lyssenko, che vietava pesticidi e fertilizzanti e usava il suo potere politico e la protezione di Stalin per perseguitare, anche fino alla morte, gli scienziati che criticavano le sue deliranti idee.
Dei 30milioni di contadini che morirono per carestie e inedia a causa della modernizzazione di Stalin, almeno la metà si stima fossero dovuti all’imposizione delle sue ridicole tecniche di coltivazione. Qualche altro milione di morti lo aggiunse la Cina, dove nel 1958 Mao impose l’agricoltura marxista.
Dietro questi incubi in terra c’è sempre il sogno di una grande armonia. In questo caso la grande armonia fra l’uomo e il pianeta. Ma forse varrebbe il caso di ricordarsi che questo pianeta è abitato, oggi, da sette miliardi di persone.
Se nutrirci è una priorità di tutti, è buona cosa che alla definizione delle politiche agricole partecipi anche la comunità scientifica. Per ragionare su quel che è utile, anziché su quel che si definisce giusto, anche perché la posta in gioco è ben più rilevante che un pugno di sussidi.