Impiegare i talenti femminili sul mercato del lavoro è vantaggioso sul piano economico e migliora il benessere dei bambini dopo il primo anno di vita. Anche una maggiore presenza paterna nella prima infanzia esercita chiari effetti positivi sui bambini. Un contratto sociale che favorisca la condivisione delle responsabilità di cura tra uomini e donne e trasformi il lavoro femminile non retribuito in lavoro retribuito farebbe diventare le nostre società più ricche e più eque.
Il rendimento scolastico dei nostri figli sarà migliore e il loro sviluppo psicologico più sano se a crescerli saranno genitori partecipi fin dall’inizio della loro vita e se poi avranno accesso a servizi per l’infanzia di alta qualità. Questo riveste particolare importanza per i bambini che nascono in famiglie povere e favorisce la mobilità sociale.
Esistono molti modelli che prevedono l’allocazione di più risorse pubbliche all’offerta di servizi per l’infanzia di alta qualità a prezzi accessibili. Se tale sostegno debba incoraggiare l’assistenza basata sulla famiglia o l’assistenza al di fuori delle pareti domestiche è una scelta che è preferibile lasciare agli individui e alle famiglie.
Il finanziamento dei costi del congedo parentale e dell’assistenza all’infanzia da parte dello Stato, anziché dei datori di lavoro, rafforzerebbe la parità di opportunità di uomini e donne sul lavoro. Il punto è che le politiche pubbliche devono sostenere gli uomini e le donne in eguale misura, in modo che abbiano entrambi libertà di scelta e l’allocazione dei talenti nell’economia sia ottimale.
L’ideale è che i governi offrano un menu di opzioni per le famiglie (congedo di maternità e paternità o, ancora meglio, congedo parentale che possa essere condiviso) e mettano a disposizione risorse pubbliche per finanziare sia i servizi per l’infanzia istituzionalizzati sia l’assistenza in casa. Queste scelte sono strettamente personali e dipendono in larghissima misura dalla situazione individuale di ciascuno.
Una cosa deve necessariamente cambiare: il compito di accudire le nuove generazioni non può più essere ignorato, dato per scontato o sottovalutato come lavoro non retribuito. Deve diventare un elemento essenziale dell’infrastruttura dei servizi pubblici, come la salute o l’istruzione. E deve anche essere flessibile, per tenere conto delle trasformazioni nell’organizzazione del lavoro e delle famiglie. Questo migliorerà la vita sia degli uomini sia delle donne, sosterrà i bambini in maniera più efficace e creerà posti di lavoro, in particolare per le donne.
Fermo restando che i servizi di assistenza all’infanzia sono indispensabili, molte altre politiche possono favorire la transizione verso un mercato del lavoro più equo. Una maggiore flessibilità del lavoro, con benefici che accompagnino le persone quando cambiano impiego e siano modulabili quando lavorano part-time, aiuterebbe sia gli uomini sia le donne a conciliare le responsabilità di cura con i mutevoli modelli di lavoro.
La tassazione individuale è preferibile a un sistema impositivo che incoraggia le coppie a presentare una dichiarazione dei redditi congiunta. Con l’imposizione su base familiare, al coniuge con il reddito inferiore (spesso la donna) è applicata la stessa aliquota del partner, il che di solito comporta un onere fiscale maggiore rispetto a quello calcolato su base individuale e si traduce in un disincentivo alla partecipazione femminile alla forza lavoro.
Parallelamente, i calendari scolastici con lunghe vacanze estive creano difficoltà ai genitori che lavorano e hanno poco senso nelle società in cui ben poche persone sono occupate in agricoltura e il lavoro minorile è illegale. È dunque essenziale orientarsi verso un contratto sociale che sostenga le famiglie bireddito sotto tutti questi aspetti.
Le politiche da sole, però, non bastano: il contratto sociale deve cambiare anche tra le mura domestiche. Come abbiamo visto in Giappone e in Corea del Sud, persino la politica più generosa del mondo in materia di congedo di paternità non funziona, in assenza di un mutamento negli atteggiamenti sociali.
I paesi nordici offrono un’interessante alternativa: quella di un contratto sociale che è evoluto nel corso di decenni verso un assetto caratterizzato da alti livelli di occupazione femminile, sostegno pubblico generoso e uomini che condividono una quota maggiore del lavoro non retribuito.
Questo modello è riuscito a sostenere alti livelli di reddito e tassi di fecondità che mantengono numericamente stabile la popolazione. Al contrario, nonostante le politiche sempre più generose, la Corea del Sud oggi ha il tasso di fecondità più basso del mondo, lo 0,9 per cento (deve essere pari al 2,1 per cento per mantenere stabile il livello della popolazione), perché gli atteggiamenti sociali non sono cambiati.
Possiamo permetterci di introdurre mutamenti così radicali nel nostro contratto sociale? Direi piuttosto che non possiamo permetterci di non farlo. Le strutture familiari si evolvono rapidamente: le coppie si sposano più tardi e le donne hanno figli a un’età più avanzata; le famiglie monoparentali sono più numerose; le popolazioni invecchiano e i tassi di natalità sono in declino ovunque, tranne che in Africa.
Il nostro contratto sociale deve rispondere alle esigenze delle famiglie moderne e delle economie moderne. Se un maggior numero di donne avrà la possibilità di mettere a frutto i propri talenti nel mercato del lavoro, l’incremento della produzione, della produttività e del gettito fiscale sarà di gran lunga superiore ai costi comportati dall’erogazione di un migliore sostegno pubblico per l’assistenza all’infanzia.
Il coinvolgimento dei padri nell’accudimento dei figli migliorerà inoltre il benessere dei bambini, permettendoci di allevare una giovane generazione più produttiva, i cui redditi più elevati contribuiranno al gettito fiscale necessario per erogare le pensioni e soddisfare i bisogni di assistenza sanitaria di una popolazione anziana in continua crescita.
Invece di cercare di gestire gli impegni intergenerazionali all’interno delle famiglie, un modello che ha prodotto risultati estremamente iniqui nel corso della storia, dobbiamo condividere quei rischi a livello collettivo.
da “Quello che ci unisce. Un nuovo contratto sociale per il XXI secolo”, di Minouche Shafik, Mondadori, 2021, pagine 276, euro 20