La pizza migliore è quella di Chicago o quella di New York? Tra americani è una vera guerra tra chi considera la vera pizza quella alta e piena di formaggio di Chicago o quella più bassa e sottile di New York. Lo scorso febbraio l’account della metropoli dell’Illinois su Twitter si vantava di essere la capitale mondiale della pizza. Con buona pace degli italiani, e dei napoletani, negli Stati Uniti la questione si risolve, squisitamente, in una faccenda interna.
L’addetto stampa del sindaco di New York Bill de Blasio nel 2017 si fece scappare che la migliore pizzeria del mondo, inclusa la grande mela, era una di Chicago. Ai newyorkesi non fece tanto piacere. «Dipende tutto dall’acqua, è l’acqua di New York a rendere la pizza così buona. Infatti, in altri posti, come Boston o la California, si fanno arrivare l’acqua da New York», commentava Gadiel Del Orbe in un video di Buzzfeed.
Eppure, la storia dell’acqua sembrava di averla già sentita dai napoletani «New York significa pizza, con la migliore a Brooklyn e, per favore, niente ananas», così Joanne Jahr, dell’Upper East Side al New York Times. «Il problema della pizza di Chicago non è tanto il gusto ma il modo di mangiarla. Come faccio a tenere una Coca in una mano e con l’altra mangiare la pizza senza piegarla? Mangiare una pizza senza poterla piegare è come mangiare una piastrella del pavimento», così invece Billy Ford, newyorkese dalle idee molto chiare. Tutta la diatriba somiglia a quella solita tra napoletani e romani. «Meglio la pizza sottile e croccante». «No, meglio mille volte la pizza a portafoglio».
Non è solo una questione di gusti o di abitudini, ognuno ha le proprie preferenze. Ma il posto dove mangiare la migliore pizza al mondo non dovrebbe essere, se non Napoli, quantomeno una città italiana? Per i cittadini statunitensi la cucina italiana resta un grande mito. Si compra e si mangia italiano anche se il cibo acquistato e gustato non è cucinato secondo la tradizione. Si potrebbe dire che negli Stati Uniti mettere il tricolore su un prodotto che di italiano non ha nulla basta a far schizzare in alto le vendite.
Ma il caso della pizza forse non è il più clamoroso. Sull’argomento appropriazione culturale in campo gastronomico agli italiani va sicuramente meglio che ai coreani, popolo sfortunato e spesso punito dalla storia. Susan Scafidi, docente di Legge presso la Fordham University nel 2017 dava questa definizione di appropriazione culturale: «attingere alla proprietà intellettuale, alla tradizione, alle espressioni culturali. Oppure, si può intendere con questo termine, un artefatto realizzato con la cultura altrui senza alcun permesso di utilizzarla». Di conseguenza, l’uso non autorizzato della cultura altrui, come la danza, la musica, il linguaggio, il folklore e, naturalmente, la cucina, si può descrivere come appropriazione culturale.
Rientra senza dubbio in tale definizione la guerra combattuta tra Cina e Corea del Sud sul kimchi, piatto tradizionale coreano considerato un vero toccasana e onnipresente nella dieta in Corea. Dal punto di vista dei coreani, quello dei cinesi è un furto di cultura. La Cina da tempo sta cercando di appropriarsi della paternità del kimchi, il cui processo di preparazione è patrimonio immateriale dell’Unesco.
Se si apre l’argomento con un coreano o una coreana, si corre il serio rischio di farli alterare. Una famosa youtuber cinese, di nome Li Ziqi, ha dato molto fastidio ai coreani a causa di video pubblicato lo scorso inverno. Nel video incriminato la star di YouTube da 15 milioni di follower, e altri 27 milioni su Weibo, sembra preparare un piatto molto simile al kimchi, ma il problema è che lo spaccia per una pietanza tradizionale cinese.
La ragazza ha trent’anni ed è molto conosciuta per i video sulla cultura e le tradizioni cinesi, spesso esaltati dai media di Stato della Repubblica Popolare. Originaria della provincia dello Sichuan, ha lasciato la vita urbana per tornare dai nonni che l’hanno cresciuta. Costruisce oggetti e prepara cibi partendo da zero. Un fenomeno. Nel caso considerato, è andata a coltivare personalmente le verdure che servono per la pietanza simile al kimchi.
Hamzy, una youtuber coreana, avrebbe osato mettere un like a uno dei tanti commenti speziati apparsi sotto al video in cui si contestava l’origine cinese del piatto. Si è dovuta scusare e ha visto immediatamente cancellati gli accordi con un partner cinese che avrebbe dovuto distribuire i suoi video in Cina.
Come se non bastasse, a novembre 2020 il Global Times, quotidiano che esprime il punto di vista del governo di Pechino, dava la notizia del conseguimento da parte della Cina di una certificazione internazionale per la preparazione del kimchi. Notizia falsa perché contestata dall’ISO (International Standards Organization), secondo cui la certificazione in questione non si applica al kimchi ma a un piatto cinese, il pao cai, una pietanza molto comune nella provincia dello Sichuan.
La “gastro-diplomazia” è sempre più un pilastro delle relazioni internazionali. La gastronomia è fondamentale per dipingere l’immagine di un popolo, promuovere la cultura pop, cambiare e influenzare le abitudini degli altri, generando interazione, cooperazione, scambi, che poi hanno un ritorno economico, in termini di hard power. Lo sanno bene gli americani, papà degli hamburger; come i giapponesi, cultori del sushi. Anche Pechino lo sa benissimo, ma adopera questo strumento per promuovere il soft power cinese a danno di un altro popolo, quello coreano. In questo senso, noi italiani non siamo soli.