La prima vetrinaL’album che trasformò Rod Stewart in una rockstar

Every Picture Tells A Story ha un’aria esuberante, da giovane che si gode la vita, magari imparando lungo la strada. E grazie alle influenze del classicismo rinascimentale, ballate, testi ironici e amari e graffi vocali il musicista britannico entra di diritto nella lista dei miglior cantanti in chiave blues e blue eyed soul. Read&Listen

A cavallo fra gli anni ‘60 e ‘70, Rod Stewart non è ancora la star che diventerà quando nel ’75 farà la sua traversata atlantica, la Atlantic Crossing, scegliendo l’America per trovare nuova vita e affermazione definitiva. Ma di sicuro è uno dei migliori cantanti usciti da quel lustro di blues e blue eyed soul che sulla scia dei maestri d’oltreoceano hanno segnato indelebilmente la musica inglese. O, come scrive Amy Linden nelle note di copertina di un cofanetto imperdibile, “Reason To Believe: The Complete Mercury studio recordings”, che raccoglie i suoi primi cinque album solisti per la Mercury, «ci sono star e ci sono cantanti. La fama ha reso Rod Stewart una star, ma nell’anima è il secondo dei due, un cantante». 

Nasce nel ’45 in una Londra ancora in guerra, da padre commerciante di origine scozzese, e questa sarà la più forte delle radici che si porterà sempre dietro: orgoglio Scottish, passione per il Celtic, sciarpe e giacche in stile clan. Spinto dal padre, calciatore amatoriale, col calcio ci prova anche, un provino in Terza Divisione, ma ripiega poi sulla voce anche se, dovunque suonerà, la partita a pallone il pomeriggio con tecnici e musicisti sarà un rito immancabile.

«Beh, la vita del musicista è più facile di quella del calciatore, posso ubriacarmi e fare musica. Ho scelto la musica. In realtà ci sono solo due cose che so fare, giocare a calcio e cantare». A 17 anni fa il busker, l’armonica va molto di moda, ed è lì per strada che lo sente Long John Baldry, che scopre poi con piacere che sa anche cantare, e allora vai col primo stipendio: gli Steampacket sono una delle tante band di blues che girano per l’isola, però con un concentrato di futuri personaggi mica da ridere: Elton John, Brian Auger e Julie Driscoll, Rod e Baldry stesso, anche se al grande successo personale lui non arriverà mai. 

È già Rod the Mod, protagonista anche di uno special tv sui Mod e il loro stile di vita: nascono lì il suo vestire flashoso e i capelli ossigenati corti e dritti sopra (grazie alla lacca delle sorelle) e lunghi di fianco che porterà per decenni. Scopre il soul di Otis Redding e Sam Cooke, perché pensa di avere quella voce, e allora tanto vale seguire quelli a cui assomigli. Passa anche attraverso uno dei tanti gruppetti che si sciolgono subito (ma che avrebbero potuto diventare chissà cosa) con Mick Fleetwood e Peter Green pre – F.Mac, gli Shotgun Express. E nonostante tutti questi incroci siano già tanta roba, è solo pre-quel, il film deve ancora cominciare.

La sliding door alla fine del ‘67 è la chiamata di Jeff Beck, fuoriuscito dagli Yardbirds e in cerca di elementi per competere con Jimmy Page e Eric Clapton nel creare una band con la visione di un blues-rock progressivo. Due anni, due album, “Truth” e “Beck-Ola”, volumi sovramplificati per gente senza macchia, senza paura e con timpani resistenti, e una prima consacrazione come vocalist potente, che sa rivaleggiare con lo stile bombastico – ancorché raffinato – da supereroe della seicorde di Beck.

Si sbarca anche negli Stati Uniti, per la prima volta, senza sapere che un giorno diventerà casa. È la prima vetrina per quella voce che non puoi confondere con nessun’altra: ruvida, rauca (gravely, husky, hoarse, la definiscono gli inglesi a cui gli aggettivi nel rock non mancano mai), che sembra spalmata di miele e poi passata attraverso due fogli di carta vetrata. Con quella voce puoi cantare ciò che vuoi: Rod viene dal blues, è vero, ma con quel timbro può rendere personale, riconoscibile qualsiasi genere tocchi, dal rock’n’roll agli evergreen del canzoniere nordamericano, l’American Songbook, a cui molto più avanti nella carriera renderà tributo, con supervendite e supercritiche da parte dei fan della prima ora. 

Dopo il Jeff Beck Group, nel 1969 Rod fa praticamente partire due carriere parallele: pubblica il suo primo album solista, ed entra al posto del dimissionario Steve Marriott negli Small Faces, insieme a quella vecchia conoscenza, bassista nel Jeff Beck Group e qui anche chitarrista, che sarà compagno di strada e di bisbocce, Ron Wood. In fondo, apre la pista a quello che diventerà uno standard per tanti cantanti-di-una-band: avere due stili e approcci diversi a seconda. I Faces-senza-Small saranno proprio gli amici del pub, sbronze e squarciagola, divertimento e fracasso, molto rock alla Stones e un tris di album niente male finchè il successo (di Rod) e gli scazzi (conseguenti) non saranno diventati troppo per tutti.

Invece su “An Old Raincoat Will Never Let You Down”, ancor di più su “Gasoline Alley” l’anno successivo e nei due dischi che seguiranno (Every Picture Tells A Story”, la sintesi perfetta, e l’altrettanto bello “Never A Dull Moment”, 1972), Rod va in altra direzione: certo, ci sono dei gran r’n’r, ma impara anche ad essere interprete, a saper entrare dentro una canzone, coglierne lo spirito e appropriarsene con personalità.

Rivelano il vero Rod: scanzonato quando serve, disposto a trattarsi con self humour, uno alla mano, che non se la tira, ma anche sensibile e vulnerabile. È spesso ottimo autore o co-autore dei pezzi più belli, oppure attinge a una palette di canzoni scelte fra classici del miglior cantautorato (Dylan, Elton John), un po’ di quel vecchio soul rinforzato (alla Bobby Womack e Sam Cooke), Stones e Who a go go e – novità fondamentale- un approccio all’essenza acustica della folk music. È un mix che il pianista Pete Sears, che suonerà con lui dal secondo album in poi, descrive come: «folk-rock, ma con una influenza soul. Era molto influenzato sia da Sam Cooke che da Bob Dylan: non era proprio folk puro, ma c’era sicuramente quel feeling folkeggiante – con un leggero accento Celtico – che è diventato il suo stile».

Ma la puoi vedere anche in un’altra maniera: suonare rock con una sensibilità e un suono acustico che non è tanto folk-rock, quanto un suono molto più robusto, diciamo rock-folk. Invertendo l’ordine, il risultato cambia: la grandezza di “Every Picture Tells A Story” è proprio in quella combinazione, assolutamente originale, di ritmo esplosivo e di strumentazione in gran parte acustica, la dodici corde usata come ritmica e il mandolino come solista. È il Rod Stewart che critici e fan rimpiangeranno, quando le dimensioni del successo inghiottiranno tutto.

La title track  apre l’album proprio con una intro da folksinger, le dodici corde di Ron che preparano il terreno, si fermano per un attimo e…. BANG, entra la batteria di Mick Waller (altro compagno nel Jeff Beck Group, con un suono che risveglierebbe persino Biancaneve – anche senza baciarla, quindi politically correctly), entrata sincrona per la voce di Rod:

“Ho passato un po’ di tempo a sentirmi inferiore
In piedi di fronte allo specchio
Mi pettinavo i capelli in mille modi diversi
Ma alla fine restavo sempre lo stesso
Papà mi ha detto ‘figlio, è meglio che tu veda il mondo
Non te ne vorrei se decidessi di andare
Ma ricorda una cosa, non perdere la testa
Per una donna che spenderà i tuoi soldi
Per cui sono uscito, whoo…”

Ci sono un sacco di cose in questo racconto del ragazzo insicuro, ammonito dal padre a non farsi spennare, che parte alla scoperta del mondo: ci sarà un po’ di autobiografia degli anni giovanili in cui girava per l’Europa, e un po’ di romanzo ’picaresco’, come l’hanno definito, cioè uno sbruffone che va in giro a tirare sòle e a tirarsi fuori dai guai nei quali si è cacciato. 

Il giovane Rod racconta per tre strofe le sue avventure a Parigi, Roma e Pechino dove finalmente trova pane per i suoi denti negli occhi a fessura di Shangai Lil che «non usava mai la pillola..»…«diceva che non era naturale» gli urla indietro Maggie Bell, una delle poche, ma eccellente, voci del rock blues inglese.

Tutto questo mentre una batteria pesantissima e quadratissima (swing questo sconosciuto) tutta controtempi e mezze rullate riempie il fondo, col basso che pulsa bello gonfio. Ma tutt’intorno ci sono solo chitarre acustiche dovunque, e fino a oltre metà di questi 6’ di grande rock non ci si ferma mai, arriva Ron pure con la slide. Ma, occhio, tutto si placa, wait a minute…:

“Aspetta un minuto!
Credevo fermamente che
non avessi bisogno di nessuno tranne me stesso
Pensavo sinceramente di essere così completo
Guarda quanto ci si può sbagliare
Dalle donne che conoscevo non mi sarei neanche fatto allacciare le scarpe
Non duravano più di una giornata
Ma la donna dagli occhi a fessura mi ha messo ko
Dio come son contento di averla trovata”.

Non avrà le parole giuste, ma il consiglio che può dare è di far buon viso a cattivo gioco e spassarsela, senza pensarci o preoccuparsi troppo…

“E se ci fossero le parole giuste
Per aiutarti a fare un po’ di strada
Non potrei citarti Dickens, Shelley o Keats
Perché è stato già detto tutto
E allora trova il meglio nel peggio, fatti una risata
Non eri tenuto a venire qui comunque
Per cui ricordati che…”

E via ad libitum, la band sempre più fracassona, ormai tutti dentro, con quella frase che non può non fissarsi in testa “every picture tells a story, don’t it…”

La critica di All Music Denise Sullivan ha commentato: «a parte essere sessista (slit-eyed lady) la canzone è una vera pepita di quel breve momento nel tempo in cui i cantanti non dovevano preoccuparsi di cosa volesse dire essere rude – anzi, più rude e crudo, meglio ancora».

Già, pensate a Mick, adesso sarebbe crocefisso sui social, chissà se leverebbero i dischi degli Stones dai negozi, loro che su maschilismo, sadomaso e donne sottomesse c’hanno fatto una reputazione, certo più di Rod, che presto incontrerà la sua prima bionda, la sposerà e diventerà un romanticone e buon papà seriale.

Strano a dirsi, ma il rock di allora, ancora con qualche pretesa di diabolico e strabordante di  ormoni a palla, la passava liscia, magari qualche critica del tipo «vabbè, sono fatti così» (nessuna battuta). Ora quel vecchio classic rock che potrebbe scatenare censure e indignazione non c’è più, sono tutti zitti e buoni, che fra un me too e un sexist e una presunta molestia che girano basterebbe dire una cosettina piccina picciò e si aprirebbero i processi. La morale di oggi applicata al rock, quella sì che sarebbe una cancel culture da Guiness dei Primati (nel senso di scimmie).

“Every Picture Tells a Story” nel suo insieme ha quell’aria esuberante, da giovane che si gode la vita, magari imparando lungo la strada. “Maggie May”, il brano che sarà lo Space X di Stewart, aperto da 30” di classicismo rinascimentale da parte del chitarrista Martin Quittenton (uno che ha cercato il successo con la sua band e l’ha trovato scrivendo due, soli due, brani con Rod, ma entrambi da Hall of Fame, questo e “You Wear It Well” sull’Lp successivo è pienamente in linea.

Ragazzo si innamora di donna ben più grande, ci sbatte la testa e non riesce a liberarsene: «Maggie May è basata su una storia vera. È stata la mia prima scopata. Ho perso la mia verginità ed è durata esattamente 28 secondi. È successo al Bewley Jazz Festival. Ho perso la mia verginità con questa ragazza corpulenta e non credo il suo nome fosse Maggie», ricorderà tanti anni dopo:

“Svegliati Maggie, credo di avere qualcosa da dirti
È fine settembre e in realtà dovrei essere di nuovo a scuola
So di averti tenuto buona compagnia, ma mi sento usato
Oh, Maggie, non avrei potuto continuare così
Mi hai portato via di casa, solo per evitarti la solitudine
Hai rubato la mia anima, ed è un dolore di cui farei volentieri a meno…

Tutto quello che mi serviva era un’amica per darmi una mano
Ma ti sei trasformata in un’amante, e che amante, mi hai sfiancato
Hai distrutto il mio letto, e al mattino mi hai preso a calci in testa
Oh Maggie, non avrei potuto continuare così…”

Ma alla fine il ragazzo usurato nel fisico si ritira sù nel morale, e finisce tutto in epica del r’n’r:

“Immagino potrei raccogliere i miei libri e tornare a scuola
O rubare il bastone di mio padre e guadagnarmi da vivere col biliardo
O trovarmi una rock’n’roll band che abbia bisogno di una mano
Oh, Maggie vorrei non aver mai visto la tua faccia”

È il brano perfetto, ironia e auto-ironia, grande testo grande musica grande interpretazione, e porta Rod al super record di essere al primo posto nei singoli e negli Lp contemporaneamente in USA e Inghilterra (con l’aggiunta di Australia e Canada, una sorta di common wealth davvero).

Ma c’è tanto altro, in questo album. C’è una bella ballata di Dylan, quella non manca mai, questa volta “Tomorrow Is A Long Time”, e una simile (nel titolo e nell’andamento) scritta da Rod, “Seems Like A Long Time”. Quella vena un po’ malinconica, un po’ rootsy la trovi anche in due gioielli: uno scritto da Rod Stesso, “Mandolin Wind”, l’altro, “Reason to Believe”, forse il brano più bello di un cantautore talentuoso e fragilissimo, Tim Hardin. Entrambi sono due dichiarazioni di amore sconfinato nei confronti di una donna di quelle che ti salvano la vita con la loro presenza, la loro tenacia e dedizione, ma che la possono anche affondare lasciandoti.

Il “vento del mandolino” è una sorta di metafora per qualcosa di tempestoso che però non può scalfire né interrompere un legame. Te li immagini in una capanna di legno di quelle che vedi nei film sulla nuova frontiera, la neve che batte sulla finestra, buffalo congelati e ululati lontani:

“La neve cadeva senza sosta
Un buffalo è morto nei campi congelati
Nell’inverno più freddo da quattordici anni in qua
Non riuscivo a credere che tu mantenessi il tuo sorriso
Ora posso stare tranquillo, sapendo che abbiamo visto il peggio
E so di amarti…
Mi ricordo della notte che ci siamo inginocchiati pregando
Vedevo il tuo volto smagrito e pallido
Non riuscivo a trattenere le lacrime
Mi vergognavo, sentivo di averti delusa
Nessun vento del mandolino avrebbe potuto cambiare qualcosa.”

È ovviamente un mandolino quello che dà a questa ballata struggente il suo tocco distintivo, ma nei crediti, come anche in “Maggie May”, c’è scritto «il mandolin player dei Lindisfarne, di cui non ricordo il nome» (ora, va bene che Wikipedia non c’era e lo smartphone neanche, però una telefonata o due la potevano pure fare…): Ray Jackson, fondatore dei Lindisfarne, band di folk-rock britannico su etichetta Charisma (quella dei Genesis, con cui hanno condiviso il palco dei primi Charisma Festivals, anche da noi) non la prese proprio benissimo, e tentò di fare causa trent’anni dopo sostenendo che il suo minuto finale di accompagnamento pagato 15 sterline era stato decisivo per il successo del brano. Credo ne cavò solo uno sferzante commento, «ridiculous». Comunque la piccola seicorde mediterranea in quell’atmosfera innevata da Far West (o da altipiani scozzesi) ci sta benissimo.

“Reason To Believe”, è la facciata A del primo singolo che pubblica la casa discografica. È un dj di Cleveland che sente anche il lato B, “Maggie May”, gli piace e lo trova molto più funzionale come singolo (non era poi così difficile, eh), lo trasmette e fa montare un’onda che non si fermerà più. Il brano di Hardin, un gioiello di ispirazione dell’americano e di interpretazione dell’albionico, oltrepassa la dedizione per finire in quella terra dove la disperazione la fa da padrona:

“Una come te rende difficile vivere senza qualcuna
Una come te rende facile dare, senza pensare mai a me stesso.
Se ti ascoltassi abbastanza a lungo
Troverei il modo di lasciare indietro il passato,
Pur sapendo che mi hai mentito
Guardandomi dritto in faccia, mentre piangevo.
Ma ciononostante, cerco ancora una ragione per credere…”

In verità, c’è una terza ballata di quelle da cantare con il cuore in mano, ed è il classico americano per eccellenza, il country gospel “Amazing Grace”, inspiegabilmente accoppiata nel doppio titolo  con una canzone ben diversa, quel “That’s All Right” che fu la scintilla e il punto di svolta della carriera dell’esordiente Elvis Presley in quella mitologica notte del ’54 alla Sun Records in cui nacque il rock’n’roll. Se levate la parte hillbilly dal rockabilly di Elvis, rimane il rock della versione di Stewart, meno riuscito dell’altro episodio di rokkaccio puro del disco.

Che è quello inciso coi Faces (in incognito, allora i contratti discografici non prevedevano queste ospitate), una versione ad alto voltaggio ed esuberanza, volume e fracasso garantito di “(I Know) I’m Losing You”, pezzone dei Temptations di un lustro prima, preso però dalla versione più grandiosa dei Rare Earth: uno degli ultimi momenti di quel “maximum r’n’b”, come gli Who definivano i loro esordi, beat e rock intinti nel r’n’b nero d’oltreoceano. Un po’ di suono degli Who i Faces ce l’hanno, non a caso il batterista dei Faces Kenney Jones lo ritroveremo nel ruolo dello scomparso Keith Moon al fianco di Pete Townshend e Roger Daltrey qualche anno dopo. Il livello di energia di questo trapianto-Faces spicca in mezzo alle altre canzoni, riequilibrando il disco e creando un ponte col percorso dei Faces. 

Il feeling che arriva da questo album è quello di un disco fatto senza pressioni, con molta spontaneità: «“Every Picture” è stato un gran disco da fare. Non avevo aspettative. Nessuno mi ha detto di incidere un singolo, ho proposto Maggie May solo perché era tutto quel che avevo da dare all’etichetta. Dopo di che speravo nel meglio. Mi manca quella spontaneità». Pre-industriale, aggiungo io, oltreché personale e artistica. «C’è qualcosa in quell’album», aggiunge Sears, «c’è una magia nella spontaneità e nella combinazione di stili. È stato un momento fortunato. Una di quelle evenienze sincroniche di un gruppo di persone che si mette insieme e crea qualcosa di unico».

Memorie di un tempo in cui i dischi, questo disco, si facevano vedendosi il pomeriggio a casa del capo, che in genere era quello che ce l’aveva più grande, si provava, si trovava il mix giusto di chitarre e una linea melodica sul pianoforte, si andava in studio – rigorosamente aprendo e chiudendo la sessione al bar con alcolici a volontà – si suonava e registrava per tre o quattro ore e nel giro di una settimana o due il disco era finito. 

“Every Picture Tells A Story” è una bellissima definizione per la fotografia, che in quell’attimo, in quello scatto, spesso racconta una storia molto più grande. Ma è anche perfetta per la musica: ogni canzone, ogni disco raccontano una storia, non è così?

 

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