Money can't buy itPerché l’élite americana non controllerà mai la politica degli Stati Uniti

Se i soldi da soli potessero comprare il potere politico, Joe Biden oggi non sarebbe il presidente degli Stati Uniti, e alla Casa Bianca ci sarebbe Michael Bloomberg. È vero che i magnati statunitensi hanno influenza sui partiti, ma ne hanno poca sulle grandi questioni che animano il dibattito e che determinano la direzione delle istituzioni

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Per anni, gli anticapitalisti hanno segnalato la presunta e – a loro dire – sempre crescente influenza di una piccola e ricca élite sulla politica americana. Questa tesi è criticabile sotto tanti punti di vista.

Prima di tutto, se il denaro potesse comprare il potere politico, Donald Trump non sarebbe diventato un candidato alle presidenziali del 2016. Avrebbe probabilmente perso contro Jeb Bush, che aveva avuto molte più donazioni di Trump o di qualsiasi altro potenziale candidato. E Trump avrebbe sicuramente perso le elezioni del 2016 contro Hillary Clinton, che aveva raccolto più di 1,2 miliardi di dollari. Trump invece raccolse circa 600 milioni di dollari.

Se i soldi da soli potessero comprare il potere politico, Joe Biden oggi non sarebbe il presidente degli Stati Uniti. Più probabilmente, ora alla Casa Bianca ci sarebbe Michael Bloomberg, che al tempo della sua candidatura per la nomination democratica era l’ottavo uomo più ricco del mondo con un patrimonio netto di 61 miliardi di dollari. Mai prima d’ora nella storia, un candidato ha speso così tanti soldi in così poco tempo di tasca propria per una campagna elettorale – circa un miliardo di dollari in poco più di tre mesi, come rivelato in un documento della Commissione Elettorale Federale (FEC) sul finanziamento delle campagne elettorali.

Bloomberg ha finanziato da solo la sua campagna e non ha accettato donazioni. Tuttavia, la tesi che i soldi fanno girare il mondo è più popolare che mai, soprattutto negli Stati Uniti.

I complottisti di destra vedono in George Soros e Bill Gates le menti diaboliche che tramano per giungere a dominare il mondo, mentre per i complottisti di sinistra erano i fratelli Koch a ricoprire lo stesso ruolo (David è venuto a mancare un paio di anni fa, lasciando al solo Charles d’interpretare tale ruolo). Uno degli studi accademici più frequentemente citato che pretende di dimostrare il potere e l’influenza del denaro negli Stati Uniti è il saggio del 2013 “Democracy and the Policy Preferences of Wealthy Americans” di Benjamin  Page, Larry Bartels e Jason Seawright.

Il fatto che questo studio sia citato così frequentemente come prova dell’influenza dei ricchi sulla politica americana è sorprendente. Dopo tutto, lo studio si basava solo su 83 partecipanti, una base molto piccola per uno studio quantitativo. Inoltre, tutti i partecipanti venivano dall’area metropolitana di Chicago. E molti di loro non erano nemmeno così ricchi, dato che solo 36 su 83 avevano un patrimonio di più di 10 milioni di dollari.

Effettivamente, è difficile condurre studi che si concentrino sui veri ricchi. Io stesso ho pubblicato uno studio sui tedeschi ricchi intervistando 45 persone con un patrimonio superiore a 10 milioni di euro – la maggior parte aveva un valore compreso tra 30 milioni e 1 miliardo di euro. Ma per questo ho pensato che il mio studio dovesse essere qualitativo piuttosto che quantitativo.

La ricerca di Page, Bartels e Seawright è stata condotta nel 2011. Quindi è interessante chiedersi se, dieci anni dopo, i ricchi hanno ottenuto dai politici ciò che si supponeva volessero. Come indica il titolo dello studio, i ricercatori volevano soprattutto identificare le “preferenze politiche dei ricchi americani”.

Tra gli undici problemi degli Stati Uniti, il “deficit di bilancio” era in cima alla lista dei ricchi intervistati. Così, per l’87% dei ricchi intervistati nello studio, questo era il problema prioritario che i politici statunitensi avrebbero dovuto affrontare. All’ultimo posto, solo il 16% degli intervistati ha individuato il cambiamento climatico come un problema importante.

«L’enfasi sulla riduzione del deficit di bilancio federale indirizza ciò che è, di gran lunga, il problema più importante nella mente degli americani ricchi – anche se non del popolo americano nel suo complesso», concludono gli autori dello studio.

Dieci anni dopo, il debito nazionale che, secondo il sondaggio, i ricchi americani avrebbero voluto vedere ridursi, è salito da 15,6 trilioni di dollari a 28,6 trilioni di dollari, quasi raddoppiando. Al tempo del sondaggio, il rapporto debito/Pil era inferiore al 100%; oggi è oltre il 133%.

Se l’aspirazione più grande dei ricchi americani era di ridurre significativamente il livello del debito nazionale, di certo non hanno trovato soddisfazione in Barack Obama o in Donald Trump – e certamente non sarà Joe Biden a ridurre il debito pubblico.

Di contro, il punto prioritario nell’agenda di Joe Biden è esattamente la questione che è stata menzionata meno frequentemente dai ricchi americani nel sondaggio di dieci anni fa, cioè la lotta per mitigare il cambiamento climatico e lanciare un Green New Deal (che comporta un’ulteriore espansione significativa del debito pubblico).

I ricchi non hanno allora alcuna influenza sulla politica? Sì, ce l’hanno, ma ne hanno poca sulle grandi questioni che animano il dibattito e che determinano la direzione della politica. Gli autori dello studio citato hanno dichiarato: «Una scoperta chiave è che poco meno della metà (44%) ha riconosciuto l’importanza attribuita all’interesse personale economico mirato».

Quindi i ricchi non sono preoccupati per le grandi questioni ma per i loro interessi economici immediati – gli autori hanno citato, per esempio, alcuni loro obiettivi: «cercare di ottenere che il Tesoro onori il suo impegno a estendere il fondo TARP a una particolare banca di Chicago, capire meglio i nuovi regolamenti del Dodd-Frank Act e come questi influenzeranno il loro business, come ottenere permessi sui terreni dallo United States Fish and Wildlife Service»

John York, che ha scritto un eccellente saggio nel 2017 sul tema: “L’aumento della disuguaglianza di reddito minaccia la democrazia?”, ha concluso che le attività dei lobbisti tendono a essere più focalizzate su interessi specifici e settoriali piuttosto che cercare di influenzare il dibattito sulle tematiche più generali della politica.

E ciò, ha sostenuto, potrebbe essere prevenuto limitando l’influenza dello Stato sull’economia: «Ridurre l’intervento pubblico avrebbe anche il vantaggio di diminuire la quantità di denaro che finisce alla politica. Sbarazzarsi dei regolamenti che distorcono il libero mercato e truccano il gioco a favore di chi ha agganci politici, azzerare gli sprechi derivanti dagli appalti governativi ed eliminare le tangenti che sono connessi ai lavori pubblici, denunciare i politici che sono coinvolti in queste pratiche, tutto ciò taglierebbe alla fonte il fiume di denaro che scorre verso Washington»-

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